BRUNA MONACO | Per accogliere “Il velo nero del pastore”, il Teatro Vascello si è rifatto il trucco. O meglio se lo è fatto rifare da Romeo Castellucci e dalla sua folta équipe di macchinisti, scenografi e scultori. Il boccascena è baroccheggiante in marmo azzurro, chiuso ai lati da due lampade d’antiquariato a colonna, dorate. Un velluto pesante e imponente per il sipario, blu e immobile come la gonna di una matrona. E come la gonna di una matrona del Seicento, contegnosa e reverenziale, alla vista del pubblico in sala, anziché aprirsi, il sipario indietreggia in un inchino o in un debutto di danza. Il movimento è fluido, del tutto inatteso, seduce e invita lo spettatore ad accompagnare con gli occhi il balletto.
Prima di questo, protagonista della scena era stato un caotico quadrante di vetro racchiuso dal boccascena: piume e coriandoli vorticavano come i panni in una lavatrice gigante, e l’ombra di un uomo, fissa, sbandierava un drappo scuro. Ma ora davanti al sipario danzante, tutto è morbido, gradevole, rasserenante, il caos di prima è dimenticato. Ci lasciamo cullare da questo movimento che mette pace. Fino all’intoppo: la gonna della matrona indietreggiando scopre un corpo. Lo ricopre riavvicinandosi al boccascena. Di nuovo indietreggia, e il movimento non rima più a una danza, ora è terribile come una marea che avanza e ingoia la spiaggia-palco, indietreggia e la scopre, lasciando i segni del suo passaggio, detriti, piume, un cavallo morto. Poi una donna, nuda, dal corpo magrissimo e glabro. È rannicchiata su se stessa, tra le gambe stringe una sfera d’oro, pesante, che cade e rotola sul palco. L’alta marea la spazza via. Il mare si ritrae la donna riappare, rannicchiata, come prima, una sfera fra le gambe: è vestita, pantalone nero e camicia bianca. Ma dal suo aspetto e dalla posizione non pare sia cambiato molto. La sfera le cade dalle gambe, questa volta il rumore è sordo, è vuota. Dorata, non d’oro.
“Il velo nero del pastore” è una successione di immagini senza un filo narrativo apparente, montate come monterebbe Eisenstein. Mancano i connettivi a garantire la coesione del testo, che pure è carico di senso. Di sensi. Nel quadro successivo la performer, Silvia Costa, è in ginocchio al centro del palco, camicia e pantaloni, mette del rosso alle guance. Senza civetteria. Poi, una macchina posta sul palco di fronte a lei, le spara addosso una luce: una striscia luminosa orizzontale, una verticale e la crocifigge. La luce è stroboscopica, la musica che l’accompagna assordante. Il tessuto sonoro, come sempre negli spettacoli di Castellucci, è angoscioso, opera di Scott Gibbons.
La fucilazione si ripete più e più volte. Troppe, forse. Ad ogni colpo Silvia Costa oscilla, barcolla, ma resta in ginocchio. Beve dell’acqua da un catino per riprendersi. La sua bocca e il suo viso sono insanguinati, schizzi di sangue sulla camicia bianca. Due uomini intervengono. Sono macchinisti, operatori, non hanno nessun rapporto con lei. I macchinisti puliscono il volto della performer, non ci sono personaggi.
La novella di Nathaniel Hawthorne a cui Romeo Castellucci si è ispirato per questo suo spettacolo parla di un pastore, il reverendo Hooper, che un giorno compie un gesto bizzarro e immotivato: decide di vivere col volto coperto da un velo. I suoi fedeli piombano nell’angoscia che qualcosa di terribile sia accaduto. Il mistero della scelta resterà irrisolto. Tante le possibili interpretazioni, tutte valide, nessuna esatta. Come per lo spettacolo di Castellucci che sembrerebbe non avere nessun contatto con la storia di Hawthorne.
Sono spettacoli, quelli di Castellucci, sempre in grado di eccedere i significati che veicolano. Rifrangendosi negli sguardi degli spettatori si moltiplicano, e ognuno può dire di aver visto uno spettacolo diverso. Di cruciale importanza è non solo il vissuto di chi guarda, ma la posizione che occupa negli spalti. È una sorta di teatro caleidoscopico, il suo. E allora chi potrebbe negare che “Il velo nero del pastore” racconta la storia della prostituzione, delle migliaia di ragazze portate in Italia da chissà chi (dalla marea, forse)? Galline dalle uova d’oro per alcuni: massiccio prima, quando la giovinezza e la verginità aumentano il valore di quei corpi. Poi man mano che le donne diventano merce, si svuotano, perdono valore (non possono essere uova quelle sfere d’orate prima pesanti e poi leggere che Silvia Costa lascia cadere dalle gambe?). Donne che muoiono più e più volte. Troppe, forse. Ad ogni colpo oscillano, barcollano, restano in ginocchio. Forse qualcuno che non ha nessun rapporto con loro, le rimette a posto quando le violenze subite le rendono impresentabili. Come fanno i tecnici con la performer.
Forse, “Il velo nero del pastore” di Castellucci non vuole raccontare la storia del reverendo Hooper, ma rispondere alla domanda dei fedeli: cos’è accaduto di così terribile? Cos’è che ha visto e non ha saputo sopportare? Forse Castellucci ha voluto squarciare il velo e vedere le immagini nascoste dietro. La scena non è più il luogo in cui tutto ciò che si vede esiste, e ciò che non esiste non si vede. La scena non è un palco. È un sipario. La sua funzione è permetterci di interrogarci su cosa nasconda.