BRUNA MONACO | Le compagnie invitate a Roma per inaugurare la rassegna “Corpi Resistenti” all’interno della 26° edizione del Romaeuropa Festival appartengono a scene invisibili. Non solo perché lontane, ma perché operano in contesti in cui la libertà d’espressione spesso non è garantita: Iraq, Algeria, Tunisia, Egitto. Sono corpi che per esistere sulla scena devono resistere nella vita quelli di Selma e Sofiane Ouissi, Mahmoud Rabiey (in arte Vito), Muhanad Rasheed, Fares Fettane, i cui spettacoli si sono svolti e si svolgeranno ancora tra il Palladium e l’Eliseo, tra il 7 e il 27 novembre.
La rassegna si è aperta con un artista affermato, ospite del Romaeuropa Festival per il secondo anno consecutivo: è Radhouane El-Meddeb, in scena al Teatro Palladium con “Quelqu’un va danser”. E si concluderà con un altro acclamatissimo déjà vu per il pubblico romano, e non solo: la compagnia Zimmermann & De Perrot porterà di nuovo al Teatro Eliseo “Chouf Ouchouf”, dal 23 al 27 novembre.
Fra queste due date e questi due apici di notorietà, tanti piccoli gruppi che come stelle appena nate vanno a costituire la galassia dei “Corpi Resistenti”.
Selma e Sofiane Ouissi hanno portato uno spettacolo tecnologico, in cui l’uso della tecnologia non è una scelta ma un bisogno: una è a Parigi, a Tunisi l’altro, ma vogliono lavorare insieme. Si incontrano nell’etere e danzano via skype. Una scelta obbligata, quindi, quella di skype che diventa una felice metafora della situazione generale che sta attraversando il mondo magrebino e mediorientale. Si parla di primavera araba, condotta in larga parte dai giovani, proprio grazie ai nuovi mezzi di comunicazione online.
Le altre performance sono più tradizionali, avvengono sul palco di un teatro. È il caso di “La fin ce n’est que le commencement” di Fares Fettane, spettacolo per due danzatori e un violino. Una coreografia semplice dai gesti reiterati, e narrativi. La sincronia è l’elemento coreografico dominante per un rapporto non dialogico né speculare. Un danzatore e una danzatrice, pronunciano le stesse frasi nello stesso momento, ma i loro due corpi sono diversi e ognuno le carica di una sfumatura distinta.
Muhanad Rasheed invece è solo sul palco, la sua performance è brevissima. “B Dream” è quasi più uno studio che uno spettacolo vero e proprio. I movimenti scoordinati delle braccia, in un agitarsi apparentemente insensato. La tunica di stoffa pesante è carica di borotalco che, non appena si muove, si disperde intorno a lui. Come una nebulosa intorno a una stella nascente, appunto.
Infine Mahmoud Rabiey ex danzatore hip hop, in scena insieme a un chitarrista e una cantante, tenta di affrontare la complessa relazione tra dio e l’uomo.
Questi tre spettacoli sono accomunati dalla scelta di temi forti, filosofici o mistici. Anche alcune immagini si riverberano di spettacolo in spettacolo. Si tratta di una simbologia a noi in parte inaccessibile, ma sottolineata, moltissimo a volte. Come i movimenti rotatori che richiamano alla mente il sufismo. Le citazioni e rimandi alla cultura di appartenenza sono presenti e importanti. La ricerca e l’urgenza comunicativa, di sicuro gli aspetti più interessanti degli spettacoli: in un modo o in un altro, tutti, sembrano aver cercato una sintesi tra l’astrazione della danza occidentale e la narratività di quella orientale. Ma la sintesi tra due concezioni così lontane della danza e della scena è difficile da raggiungere. In conclusione, gli esperimenti non sono pienamente riusciti, ma ammirevole è la scelta, chiaramente politica, di creare la rassegna “Corpi Resistenti” e dare visibilità alla primavera araba.