BRUNA MONACO | È passato un anno da “Displace # 1 La rabbia rossa”. Era sempre il Romaeuropa Festival, sempre i Muta Imago, ma allora si trattava di uno studio, prima tappa di un progetto che si è concluso questo 25 novembre al Teatro Vascello, con la prima assoluta di “Displace”.
La voce di una cantante lirica (Ilaria Galgani) apre lo spettacolo mentre il palco è buio. Dopo un po’, le luci sapienti di Claudia Sorace (è lei i Muta Imago, insieme al drammaturgo Riccardo Fazi) svelano qualcosa della scena: un muro, sembra antico, sembra ci siano delle incisioni. Poi non sembra più un muro ma un telo. Oscilla. O è solo un gioco di luci? Sono proiettate dall’alto, dal basso, da destra, sinistra, cambiano e sono fluide. Cambiano e cambia quello che vediamo. Poi il muro si sgretola insieme all’illusione che sia un telo, in terra restano solo macerie. Su queste macerie appaiono quattro sagome umane. Si vedono a malapena, le luci sono debolissime, boicottano i loro movimenti come a volerle nascondere.
Le quattro sagome si muovono da felini, rovistano fra le macerie, le illuminano con delle torce da minatori. Subiscono gli attacchi di musiche assordanti e fari rossi, fastidiosi, che colpiscono anche il pubblico. Agitano delle fruste, rivolgono al pubblico sguardi disperati. Poi dal soffitto cascano quattro cavi, all’estremità dei ganci che le performer legano a un telo, per terra, finora invisibile. I cavi tirano su il telo che forma la prua di una nave. La nave che trasporta le schiave de Le troiane, il testo di Euripide a cui, in modo sommerso o vago, “Displace” rimanda.
È uno spettacolo tripartito. La prima parte riflette sul mondo sgretolato di cui ci affaccendiamo a raccattare pezzi. La seconda, sulla rabbia che nasce dallo stato di cattività e spaesamento in cui ci troviamo oggi. La terza intravede nella fuga l’unica e necessaria soluzione, che rischia però di assumere i contorni di una deportazione. Temi interessanti, purtroppo mal supportati dalla messa in scena, che non sembra avere approfondito in modo davvero efficace quanto di buono emergeva in quel “Displace # 1 La rabbia rossa”. Identici i punti di forza e di debolezza. Lo spettacolo si è arricchito solo in immagini, una somma quantitativa e non qualitativa, un collezionare più che un produrre senso. Il lavoro scenotecnico, seppur non impeccabile come negli altri spettacoli dei Muta Imago, è pur sempre notevole, ma le immagini non si elevano a spettacolo.
La distanza tra quello si vede e quello che i Muta Imago vogliono dire è troppa. Forse oggi, spettacoli visionari come questi hanno bisogno di un supporto intellettuale più spesso: non essendo coinvolto in un processo intellettuale stimolante, lo spettatore è in sterile attesa davanti alle immagini, le aspetta e vuole che queste lo sorprendano. Ma l’attesa non è il terreno più fertile per la sorpresa. E del resto, la sorpresa ha vita breve: bisognerebbe proporne una dopo l’altra, una più grande dell’altra.
Il punto nodale è forse legato al pensiero che presiede questo spettacolo e molti altri del nostro teatro di ricerca. I nostri artisti sono spesso bravissimi a decostruire, svelarci l’insensatezza che presiede a ogni meccanismo narrativo. Ma viene da chiedersi: e se gli spettatori sentissero l’esigenza di qualcosa di più corposo? La vita è inintelligibile, l’essere umano un’assurdità, l’unità una finzione, ogni teoria un arbitrio. Questo non lo sappiamo già? La non compattezza del reale non è l’inferno che scontiamo ogni giorno? In altre parole, è possibile che il precariato abbia spazzato via ogni dubbio sull’esistenza di un sistema ordinato e comprensibile. E allora, al teatro non chiediamo di dirci ciò che già sappiamo. Ma di immaginare la diversità.