BRUNA MONACO | Chi non conosce la storia di Pinocchio scagli la prima pietra, potrebbe dire un Messia che volesse star sicuro dell’ordine delle sue pietre. Tutti hanno letto il libro di Collodi e, achi non avesse dimestichezza con la lettura, ci ha pensato Walt Disney. Il bambino di legno ha attraversato tutto il mondo.
Questo di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli della compagnia Burambò è un Pinocchio diverso. Sicuramente non è quello di Walt Disney (come precisano loro stessi prima di cominciare), ma non è neppure una riproduzione pedissequa di Collodi. La vicenda dello scrittore fiorentino è decostruita, vediamo al contempo la storia e lo sguardo sulla storia. E lo sguardo è quello di Pinocchio. In che modo un personaggio, se potesse, racconterebbe la propria storia? Cosa ometterebbe, che ordine seguirebbe? Queste le domande a cui i Burambò, attraverso questo riuscitissimo “Secondo Pinocchio”, cercano di rispondere.
“Secondo Pinocchio” inizia, il nostro protagonista di legno è a quattro zampe (è un burattino intero, ha anche le gambe). Ha un laccio intorno al collo, abbaia al cielo, il suo verso è disperato. “Pinocchio, cosa fai?”. “Sto facendo la scena in cui il contadino mi lega al palo e mi dice di fare il cane”. “Ma Pinocchio, questa scena non c’è più, l’abbiamo tolta, avevi detto che non volevi farla…”. E via una discussione su come impostare la messa in scena, come raccontare la storia, come dare ordine alla ressa dei ricordi: se del tuo passato non fai racconto, un racconto che tu possa guardare e ascoltare come uno spettatore, è difficile trarne il senso. Ma si tratta di una discussione intima, non di una diatriba intellettuale: il Pinocchio dei Burambò sembra il figlio di una famigliola felice.
I confini del baldacchino disegnano la cornice di un grazioso quadro di famiglia, mamma (Daria Paoletta, attrice e manipolatrice) e papà (Raffaele Scarimboli, creatore degli splendidi pupazzi e burattini, oltre che attore e manipolatore) che giocano a mettere in scena la vita della loro esuberante creatura. Pinocchio decide di iniziare a raccontare la sua storia dall’inizio, per bene: allora ecco apparire un ciocco di legno, un manto di neve, Geppetto. E mentre la sua storia fa i primi passi, Pinocchio, che ha ottenuto il permesso di stare a guardare, è seduto in cima al baldacchino, ciondola le gambe e si diverte come un matto. Vede il proprio alter ego in scena. Vede la sua vita, per come lui la ricorda e la interpreta, farsi teatro grazie all’aiuto dei suoi stessi manipolatori.
Come un bambino vero Pinocchio piange e ride, vibra, come scosso da un fremito autentico. A tutti, grandi e bambini, viene voglia di consolarlo, abbracciarlo, coccolarlo. Quasi ci dimentichiamo che dietro di lui c’è la bravissima Daria Paoletta. Ce ne ricordiamo solo quando si apre la tenda, e la manipolatrice/attrice viene fuori col viso arrabbiato, a sgridarlo per qualche sua monelleria. E mentre ridiamo di cuore, capiamo che in teatro un burattino può sembrare, e quindi essere, un bambino più vero del vero.
A fine spettacolo, Pinocchio non si trova più. Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli temono che sia diventato un bambino vero, e che sia scappato. Non se ne fanno una ragione, lo cercano fra i bambini del pubblico: vogliono convincerlo a tornare burattino. Perché diventare un bambino come tanti, quando può restare Pinocchio? Nel libro di Collodi, nonostante la sua carica disturbante, alla fine emerge la morale che vede nella normalità un valore: per il suo Pinocchio diventare un bambino come tutti gli altri è una conquista. Ma oggi, davanti a tanta uniformità culturale, essere eccezionali, diversi, è meglio che essere normali, omologati. Rispettando le forme esterne della narrazione, i Burambò ribaltano il senso stesso della fiaba, cioè che essere bambini sia meglio che essere un burattino. E del resto, perché mai dei teatranti dovrebbero considerare il burattino un essere inferiore e non invece il migliore dei possibili compagni di lavoro? Non è un caso che, nella versione dei Burambò come nella vicenda collodiana, la trasformazione in bambino, e dunque l’irruzione della normalità della vita, segna la fine della storia.
“Secondo Pinocchio” è uno spettacolo intelligente e caldo. Per questo è in grado di emozionare il pubblico infantile ed appassionare gli adulti. Lo svelamento del trucco che sta tanto a cuore alle nuove realtà europee di teatro di figura, qui è alla base del rapporto fra i personaggi, è l’ossatura stessa dello spettacolo. Ed è proprio rinunciando alla magia del trucco che “Secondo Pinocchio” si apre a un pubblico adulto. Pubblico a cui i Burambò mirano già da un po’ stando ad una delle loro recenti creazioni, l'”Alcesti”, creato espressamente per adolescenti e adulti. La qualità del lavoro di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli è indiscutibilmente alta, su tutti i piani, dalla drammaturgia, alla recitazione e manipolazione delle figure, alla regia. Ma, forse, la lezione più importante di “Secondo Pinocchio” è che per farle sembrare vere, bisogna volere bene alle proprie creature, siano esse burattini, marionette, personaggi.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ovNXB2ZwZMg&w=560&h=315]