RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, Le bugie con le gambe lunghe di De Filippo visto al Donizetti di Bergamo e Cinema Cielo di Manfredini visto al Franco Parenti di Milano.

Cinema Cielo è una bella signora matura con le rughe. Una signora che indossa i suoi anni con eleganza, non ha voglia di nasconderli, e racconta sé e il suo vissuto.

Nella bella stagione del Teatro Franco Parenti, fra le più interessanti a Milano quest’anno, grazie alla volontà della direzione artistica, Danio Manfredini sta riproponendo i suoi lavori storici, quelli che hanno portato al successo non solo l’attore, ma anche il drammaturgo e l’artista a tutto tondo. La coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Santarcangelo dei Teatri ritorna così a vivere e il successo di pubblico è stato eclatante. La prima ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito: in scena va il degrado da periferia di città, le vicende del suo sottoproletariato fatto di giovani disoccupati, anziani, immigrati arrivati al check point con il mondo ricco al quale non avranno mai accesso.

Manfredini, come gli altri attori, interpreta diversi personaggi, ad iniziare dalla prostituta che passeggia in cerca di clienti davanti al vecchio cinema: una foto proiettata gigantesca su un velo che presto si squarcia per portarci proprio dentro il cinema. La visione dell’interno del cinema, quasi speculare a quella da cui gli spettatori guardano lo spettacolo, con le poltroncine rosse, non può lasciare indifferenti nel profondo.

Quanto questi due mondi che per tutta la pièce si guardano in un dialogo mai diretto sono realmente in contatto fra loro. Quanto la piccolo e medio borghese platea che assiste alla replica si confronta con quell’universo portato in scena? Quanto lo accetta? Quanto lo sente parte di sé? Sono questi gli interrogativi più profondi e drammatici dello spettacolo di Danio Manfredini, quelli che ancora oggi, a distanza di quasi 10 anni, restano vivi e potenti. Allora lo spettacolo valse all’artista il Premio Ubu per la miglior regia. La messa in scena aveva ed ha un sapore comunque corale, di cui sono parte integrante, sempre viva e presente, gli altri interpreti Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro. La platea è riempita da altre presenze che, come ne La classe morta di Kantor, sono burattini inanimati, riproduzioni a grandezza naturale di esseri viventi, a simboleggiare figure al limite, il cui stato in vita è forse più spesso sulla carta che nei fatti. Manfredini aveva già fatto ricorso a queste figure in altri suoi spettacoli, e in alcune scene, come quella della piccola orgia che avviene fra le squallide poltrone del cinema, la presenza dei manichini è viva e reale, con effetti tragicomici che non sfuggono allo spettatore.

Cinema Cielo, nel nostro profondo e anche nel decennio di distanza che ci separa dalla sua elaborazione concettuale, più di tutto, oltre all’insita bellezza in se stesso, spiega anche moltissimo della scena teatrale italiana degli ultimi quattro cinque anni. A volte si ha l’impressione che l’attenzione al periferico, a ciò che è borderline o semplicemente in posizione di volontaria o costretta incomunicabilità con la maggioranza crassa e silenziosa sia invenzione di nuovi geniali registi. Cinema Cielo ci ricorda di quanto la paternità, volontaria o involontaria, sia chiara nelle ricerche di chi quei bordi li ha vissuti e indagati per anni come certamente Manfredini ha fatto.

E’ uno spettacolo che, ove se ne avesse ulteriore possibilità, va visto. Perché ha segnato un passo, è una pietra. E’ elaborazione di quanto lo aveva preceduto, e impasto per quello che gli è succeduto. Come sempre il teatro è. Nessun genio improvviso nasce fuori dal suo tempo, senza respirare quello che lo circonda, le finte ricchezze e le vere miserie che sono l’unica, vera costante della vicenda umana. Gli spettatori del film porno nella saletta del Cinema Cielo guardano a noi, in sala. Siamo noi la vera pornografia, gli interpreti di quel “Nostra signora dei fiori” che rimane per tutto l’allestimento alterità spaziale e spettacolare esterna e quasi sempre silenziosa. Proprio come fuori dal cinema. E dal teatro. Come dieci anni fa, come oggi. Il dentro e il fuori. Noi e loro per dirla con i Pink Floyd di the dark side of the moon che Manfredini sceglie come colonna sonora.

Alcune immagini di Cinema Cielo

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Luca de Filippo grazie alla eredità familiare, che lo lega in filo diretto a tutto il teatro di prosa del Novecento napoletano da Scarpetta a suo padre Eduardo, continua con instancabile tenacia a portare in giro l’immenso patrimonio intangibile di famiglia, fatto di opere che anche allo spettatore più distratto continuano a comunicare la loro attualità ed eterno legame con la vicenda umana. Non è un caso che le commedie di Eduardo siano, nel teatro amatoriale del centro sud Italia, quelle di gran lunga più rappresentate, a significare un legame con la società sempre vivo e resistente.

Le bugie con le gambe lunghe è opera del dicembre 1946, rappresentata un anno dopo a causa del successo dello spettacolo precedente, quel Filumena Marturano che Luca ha portato in giro di recente con l’interpretazione di Lina Sastri, successo che provocò una serie continua di rinvii nel debutto della drammaturgia successiva. Gli spettacoli di quegli anni, come Filumena, Le voci di dentro e anche Le bugie con le gambe lunghe sono imperniate intorno al tema del vero, della convenzione, di ciò che è giusto mostrare al consesso sociale e ciò che invece è decoroso e borghese nascondere. Così la fame e la povertà vengono chiuse in credenza mentre i vicini fanno visita, in un’amarezza che però centra il suo fulcro sulla misera come condizione dell’animo più che su quella materiale. Eduardo mostra così una radicale attenzione alla necessità della sospensione di giudizio sul dramma della condizione disagiata, ponendo invece l’accento su come la miseria porti alla distorsione della morale intesa come insieme di norme condivise nel consesso sociale.

Questa lettura rimane tal quale, sostanzialmente, nello spettacolo che Luca de Filippo propone, e con cui si è aperta la stagione del Donizetti di Bergamo. Come nel Pirandello de Il piacere dell’onestà e di altre opere coeve, Le bugie è opera incentrata sull’ossimoro fra la figura sincera e dal tratto ingenuo ma dignitoso del protagonista Libero Incoronato, e un condominio abitato da vicini che lo coinvolgono, senza mai riuscirci, nelle loro squallide vite fatte di menzogne che la convenzione sociale richiede vengano mantenute in piedi e continuino a camminare a lungo (di qui il titolo della pièce). La scenografia di Gianmaurizio Fercioni con i fondali di Giacomo Costa è come sempre negli spettacoli di De Filippo assai sontuosa, ricca al limite del didascalico, ricordando il classico interno napoletano sommerso da palazzi l’uno sull’altro, grigi di un grigiore che non dà respiro.

E’ in una casa che non vede la luce del cielo che abitano Libero e sua sorella, in una condizione tale da suggerire alla zitella di prendere marito quale che sia, pur di aver sulla tavola qualcosa in più che un uovo e un misero brodino. La produzione è della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e nelle 2 ore e 40 minuti di spettacolo (con intervallo) il pubblico ha esattamente quello che si aspetta: da Luca De Filippo (nel bene e nel male) pare impossibile avere sorprese, in una costante proposta non solo di un corpus di opere ma anche di un codice che vuol mantenere un impianto tradizionale, che prevede ammiccamenti e trovate recitative d’antan, appoggiate qui e lì sulle spalle degli attori dei personaggi minori, spinti al limite del macchiettistico, in gag che sono pensate volutamente in forma esagerata, come ad esempio le crisi isteriche della vicina di pianerottolo che cerca di coinvolgere l’impassibile Libero nella copertura, a sua insaputa, di una tresca.

Lo spettacolo è godibile, sia chiaro, ma ci piacerebbe poter pensare di assistere prima o poi a qualche lettura audace di Eduardo, che lo riporti in vita, che continui a far battere il cuore: magari con minor dispendio di energie “scenografiche” e maggior ricerca degli ambienti umani interiori, che tanto furono del modo rigoroso di pensare parterno, fuor di eccessi, in un teatro che ritrovi misurata povertà e profonda adesione al reale, per testi che continuano, nonostante tutto, a respirare attualità.

Un video dello spettacolo di De Filippo
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