BRUNA MONACO | Admeto, re di Fere, deve morire, ma qualcuno di molto potente gli è affezionato: Apollo, che convince le Moire a risparmiare l’amico. A patto che qualcuno si sacrifichi per lui. Si rifiuta Ferete, il vecchio padre. E la madre. Solo la moglie, Alcesti, accetta. Poi Tanathos fa il suo. Eracle, ignaro della tragedia, proprio quel giorno chiede asilo al re di Fere, e lui non sa rifiutarlo: l’ospitalità non solo è sacra, ma anche conveniente se si rivolge a dei e semidei. Infatti scoprendo d’aver banchettato in una casa in lutto, Eracle, per scusarsi, vince Tanathos e riporta Alcesti all’amico Admeto.
Questa la trama, per un’ora e cinquanta di spettacolo: giusto il tempo che serve agli attori per portare i 1163 versi dell’Alcesti euripidea alle orecchie del pubblico. Non un verso di più, appena qualche parola in meno. La linea registica di Walter Pagliaro è chiara: il testo va rispettato, nessun adattamento. E va rispettata, a grandi linee, anche la consuetudine scenica dell’epoca: a due soli attori in maschera il compito di interpretare i ruoli dei protagonisti.
Micaela Esdra e Luigi Ottoni sono poliedrici, supportati dai costumi appariscenti, ai limiti del kitsch, e appunto dalle maschere di Giuseppe Andolfo. Maschere sgargianti, dai tratti deformati, inumani: se simboleggiano le anime dei personaggi, allora accusano tutti di essere marci, nessuno si salva. Neppure Alcesti. Neppure il coro degli abitanti di Fere, che in questa versione di Pagliaro è ridimensionato, ridotto a due sole voci.
In “Alcesti mon amour” il coro è sempre in tiro, sempre pieno di pathos, si fatica a seguirlo nonostante la bellezza del testo. Peccato: il coro dovrebbe essere il doppio del pubblico, amplificarne le emozioni, parteggiare per uno o l’altro personaggio, farsi delle idee su cosa sia giusto e cosa no. È un coro vestito con costumi sobri, color sabbia. All’opposto i protagonisti: per Micaela Esdra e Luigi Ottoni non solo le maschere e i costumi sono eccessivi, saturi di colore. Satura è anche la recitazione. Esasperata fino a essere fastidiosa. La tragedia di Alcesti prende le sembianze di una farsa. Del resto non è una scelta causale, mandare la tragedia alla deriva: c’è chi ritiene che l’Alcesti di Euripide sia in realtà un dramma satiresco. Occupava infatti la quarta posizione nella tetralogia che valse a Euripide il secondo premio nel 438 a.C., la posizione dei drammi satireschi. Protosatiresca, così tendono a definirla i critici contemporanei.
La versione di Pagliaro, però, puntando tutto sul grottesco schiaccia i personaggi, li rende bidimensionali. Operazione non convincente con un drammaturgo come Euripide in grado di creare personaggi carichi di contraddizioni, sfaccettature, desideri contrastanti. Nessuno dei tanti temi sollevati da Euripide spicca in modo netto in questo “Alcesti mon amour”, il regista sceglie di non esaltarne nessuno. Certo, così si preserva l’ampiezza tematica del testo, ma tutto finisce un po’ col confondersi. Non emerge la diatriba tra i rapporti elettivi e di sangue. Non la questione sul potere, su cos’era essere donne, schiavi, o uomini liberi. Lo spettacolo sconta insomma la mancanza di una lettura critica, una posizione forte.
Al di là delle maschere e dei costumi contemporanei, Pagliaro, che pure è stato assistente di quel maestro della regia critica che era Strelher, ripropone Alcesti senza interventi forti, come se fosse ovvio mettere in scena oggi un testo di duemila e cinquecento anni fa. Come se tra il pubblico della Grecia del IV secolo a.C. e il pubblico italiano di oggi non ci fossero poi enormi differenze. Come se anche noi andassimo a teatro con in testa un chiassoso universo mitologico, durante il tempo della festa, a spese di un nostro illustre concittadino, disposti a sedere sulla pietra e all’aria aperta per ore dopo un anno intero passato senza quel miracolo che ancora non sappiamo spiegarci bene: vedere gente che si innamora, combatte e muore, e dopo si leva la maschera e torna alla vita di sempre.
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