MARIA CRISTINA SERRA | Le interminabili file dei visitatori al Jeu de Paume, lungo il limitare dei giardini delle Tuileries, hanno spinto la direzione del Museo ad estendere l’orario notturno a tutti i giorni della settimana (fino al 5 Febbraio e poi a Winterthur, Berlino e Amsterdam). Con una punta di imbarazzo e il necessario distacco s’inizia il percorso attraverso 200 foto (dagli anni 50 al ‘71, anno del suicidio), che tracciano un’insolita percezione della realtà, così come Diane Arbus l’ha rappresentata, andando oltre i confini del rituale e del condivisibile, per scovare il mostruoso ben nascosto fra le ombre inafferrabili della rimozione e dei traumi impliciti nell’esistenza stessa: “io guardo le divinità dentro le cose ordinarie”.
“La macchina fotografica riportava alla luce l’ignoto, mi dava la licenza di andare dove volevo e di fare quel che volevo”, diceva, “Una cosa non si vede perché è visibile, ma al contrario è visibile perché si vede”. E allora è necessaria la crudeltà, “non altro che una forma estrema di confidenza”. Si penetra senza preamboli nel cuore della mostra. Da subito si percepisce il forte legame d’intimità, mai sentimentale però, che lei instaurava sempre da “esterna” con i soggetti prescelti. Il loro sguardo è quasi spesso rivolto diritto alla camera, senza pudore né inibizioni, inconsapevolmente fiducioso di affidare i propri segreti e tabù all’occhio indiscreto della Arbus, decisa ad oltrepassare la linea scura della “rigidità emotiva e no, che condiziona tutti i rapporti umani”.
I volti dell’inquietante normalità si alternano a quelli in cui la deformità o la devianza sono palesi; le sfumature di neri e grigi sottolineano i particolari più scabrosi e disturbanti, ma sostanzialmente le differenze nell’umanità da lei ritratta sono inferiori alle assonanze. Bambini, nudisti, travestiti, spogliarelliste, donne e uomini sorpresi nel privato; coppie suburbane, malati mentali, freak, anziani sulle panchine del parco, ermafroditi e avventori solitari ai tavolini dei caffè comunicano “uno stralunato realismo, un abisso glaciale e terribile”, in grado di annullare ogni differenza, ma allo stesso tempo anche ogni senso di speranza, di certezza o di ironia. Un mondo in cui tutti appaiono stranieri, abitanti di universi separati dalla nebbia sottile dell’angoscia, immobilizzati in una solitudine dal sapore amaro. Il travestimento dell’eccentricità diventa allora consuetudine; il grottesco emerge nelle mille pieghe della quotidianità, riportato alla luce da un obiettivo capace di vedere oltre l’apparenza del bello, per sdoganare la verità del brutto.
E’ surreale la “Giovane famiglia a passeggio per Brooklyn” con i vestiti della domenica, nel’66: il flash illumina lei e la bambina, spostando in secondo piano lui e il figlio, creando così un effetto tridimensionale. “La coppia di adolescenti” in Hudson Street, stretta nei goffi cappottini e chiusa in un rigido abbraccio, tradisce una tenerezza asessuata.
Le “gemelline identiche” nel New Jersey del ’67, i grandi occhi trasparenti, dai sorrisi opposti, ricordano un inquieto racconto di Henry James. Il “giovane uomo dal cappello di paglia” che manifesta per la guerra in Vietnam, a New York nel ’67, con il distintivo “bombardare Hanoi”, mostra il lato scomodo del sogno americano. La rigidità, il ghigno e la mano contratta del “Bambino con una granata di plastica a Central Park”, così anomalo, sfata il mito dell’innocenza infantile. E’ sfacciata, falsamente disinvolta, la “Donna con veletta sulla V Avenue” a New York. Sono tristi le spogliarelliste nei loro squallidi camerini dai muri scrostati e sommersi di avanzi e bottiglie vuote. Sono la parodia di se stesse le anziane, sfatte coppie di nudisti, così come i ballerini durante le pause delle competizioni: rigidi eroi senza sorrisi. Adagiata sui cuscini, immersa nell’abito di tulle bianco, gli occhi languidi sotto il rimmel, “La reginetta delle debuttanti anni ‘38”, a Boston nel ’66, è una malinconica bambola chiusa nei ricordi. Vive la sua maternità seduta su uno sgangherato divano “Una donna con il suo bebè scimmietta”, completa di coprifasce e cuffietta.
La lunga serie di travestiti, omosessuali, ermafroditi, è introdotta dal bellissimo e ambiguo ritratto di “Giovane uomo in bigodini”, che stringe fra le dita con le unghie laccate una sigaretta. L’America Underground delle notti proibite, dei locali malfamati, degli squallidi alloggi scenari di vite maledette, si scontra con quella conformista, ma “fuori fuoco”, de “L’albero di Natale dentro un salotto a Levittown”, Long Island, schiacciato dal soffitto troppo basso.
I contrasti, le contraddizioni, l’amore per le differenze sono il filo conduttore della vita artistica e privata di Diane Arbus, nata Nemerov (14 Marzo 1923) da una famiglia dell’alta borghesia ebraica e segnata da una rivolta radicale contro tutto ciò che è “dolorosamente rassicurante, un privilegio di nascita vissuto da prigioniera di un senso di irrealtà”. Il mondo patinato di Vogue, Harper’s Bazar, Glamour, il matrimonio à la page con Allen Arbus diventano troppo angusti. Lisette Model, fotografa energica, carnale, audace, dissacrante di “mondi in continua mutazione” le aprì nuove strade da esplorare.
“Amo le differenziazioni, il carattere unico di tutte le cose, che conferiscono importanza alla vita”, scriveva la Arbus, “ogni Differenza è in sé una Somiglianza da osservare, comprendere”. E dopo le immagini sconvolgenti, magnifiche della serie Untitled del 1970, scattate in istituti per malati mentali e handicappati, attraversate da acrobazie sul prato, scoppi di gioia improvvisi, travestimenti carnevaleschi, che rievocano le maschere sbeffeggianti di Ensor, in cui è la Arbus a seguire i movimenti dei suoi protagonisti, abbandonando la rituale fissità, ecco le due ultime stanze consacrate alle foto della sua storia privata. Quaderni, taccuini, lettere, progetti, amicizie, affetti tentano di raccontarcela attraverso il diario intimo della vita. Lei, dura e fragile, sensibile e cinica, bella e ricca di personalità nell’autoscatto del ’45, seminuda, incinta della prima figlia, ma inquieta e assorta negli ultimi scatti. Calligrafia fitta, annotazioni precise: “La fotografia è un segreto su un altro segreto. Più essa racconta, meno puoi sapere su di lei”. Forse comprese la terribile vertigine dell’ignoto e vi sprofondò senza filtri, quel 26 luglio del 1971, quando si tagliò le vene nella vasca da bagno, dopo aver ingoiato una manciata di barbiturici.
Il reportage di Purekids della mostra con intervista a Charlotte Tanguy
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