RENZO FRANCABANDERA | II CRT resiste. Nelle difficoltà di una Milano che stringe la cinghia e si copre dal freddo, lo storico teatro continua ad ospitare interessanti realtà della scena nazionale con un programma, che pur sotto la scure dei tagli di bilancio, continua a proporre grandi spettacoli. Nelle ultime settimane è stato il caso di Claudio Morganti e Saverio La Ruina, con le loro più recenti produzioni.
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Al centro del palcoscenico una struttura cubica ricoperta su tre lati da carta bianca. Oltre questo, null’altro. Ombre Wozzeck è una scatola e il suo esterno, la casa e la strada, l’intimo della storia e il volgare della piazza, l’esclusivo del tragico e lo sguaiato del comico, ma anche il leggero dissolversi dell’uno nell’altro.
Per sfuggire ad alcunché di preordinato e meccanicistico, l’artista decide di contrapporre due areeconcettuali della pièce: quella delle ombre che avviene all’interno della magic box e quella all’esterno in cui l’attore/mattatore racconta la storia e fa da mediatore con lo spettatore rispetto a quello che guarda. La sezione dello spettacolo basata sulla narrazione per mezzo delle ombre all’interno della struttura, con l’uso di poche ma ben congegnate fonti di luce, fra le quali una lavagna luminosa che aiuta a creare effetti cromatici mai invasivi e interessanti è calibrata al millimetro; tanto è registrata e precisa la parte “interna”, tanto è apparentemente improvvisata e basata sull’estro di uno stand up comedian la seconda, affidata a Morganti stesso che, come un cantastorie d’altri tempi, con bastone e scimmietta, irretisce un pubblico che deve vivere continuamente questo dentro e fuori crudele, non potendosi mai appassionare a nessuna delle due metà della mela, dovendo ondeggiare, come una barca in marea, fra un’onda e quella seguente.
Gli attori li conosciamo per tutto il tempo attraverso le loro silhouette, e raccontano di un soldato umile e onesto, di un capo stolido e volgare, di una moglie inconsapevole e troppo fragile al condizionamento. Si stagliano con criminale nettezza in controluce i due orecchini che il graduato le regala come pegno, e che il povero marito Woyzeck non comprende: cerca di spiegarli prima di tutto a se stesso, al suo essere strumento curvo, inconsapevole, affaticato sotto il peso della semplicità. Tutto avviene in modo assai preciso, con una resa scenica che, pur nella semplice alternanza di ombre e luci, riesce ad essere espressionista grazie ad ambientazioni proiettate di sapore futurista all’interno delle quali si muovono gli esseri umani con le loro fragilità.
Solo Morganti supera questa bidimensione, come un moderno Orfeo che riesce ad entrare nel regno delle ombre; in realtà ci riescono lui e la sua scimmia nel finale dello spettacolo, uomo animale, fragile, che rompe il giocattolo lacerando la carta. Un’epifania forse inutile ai fini del bilancio emotivo di un lavoro che non deve spiegare il dentro e il fuori meglio di come già faccia con più eleganza il fantastico passaggio di luce in cui Morganti, seduto ad una sedia e illuminato, si fa radere dall’ombra di Woyzeck; poi pian piano la luce che lo illumina in primo piano dirada e l’attore diventa ombra, passa nell’al di là del racconto, trasale la dimensione del reale, se mai il teatro reale è.
Dopo aver declinato la sua vocalità in ogni direzione possibile, Morganti sceglie ancora il Woyzeck per continuare la sua indagine sul teatro, tanto da lasciar pensare che ormai l’opera sia un pretesto, e che più di tutto prevalga l’operazione artistico-concettuale, il suo contenuto poetico, la leggenda del palcoscenico.
Da vedere.
Un video di Ombre Wozzeck realizzato da CRT
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=n2rzMwUXbRc]
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Saverio la Ruina e una sedia. Ormai siamo abituati a vederlo così, lui e i suoi personaggi dall’incedere impedito. Chi fermo, inchiodato al suo stato, chi azzoppato nella sua condizione umana dal destino, chi dalla vita. Italianesi è una storia che come tutte le altre nasce al sud, trova ispirazione in quei numerosi paesi di cultura arbresh, albanese, che popolano l’entroterra calabrese, che secoli fa, durante le avanzate delle armate ottomane nella penisola balcanica, ospitarono gli esuli della terra delle aquile. Ma come sempre accade esistono anche i casi contrari, le storie degli italiani che, dopo che sull’Europa calò la cortina di ferro, rimasero prigionieri dall’altro lato dell’Adriatico, e che ritrovarono la libertà solo con la caduta del regime comunista. Il paradosso per loro fu che da quel momento in poi rimasero italiani per gli albanesi e albanesi per gli italiani: sono gli Italianesi di cui l’artista ci parla.
Quella che La Ruina racconta è la storia di una famiglia di italiani in Albania che al sopravvenire del regime comunista viene divisa, con il padre rimandato forzatamente in Italia e moglie e figlio che restano in Albania, finendo in un campo di concentramento. Vittima delle ritorsioni e delle violenze del regime, il ragazzo sopravvive con l’ingenua fantasia del bambino che costruisce un microcosmo salvifico che nell’età adulta si trasforma in capacità di abbinare e scegliere i colori, dote che profonderà in una delle più tradizionali e semplici forme artigianali, il mestiere del sarto. Azzoppato dalle percosse delle guardie, con la caduta dei muri che separavano l’Europa, l’uomo cerca ad inizio anni Novanta di ritrovare il genitore che rintraccia in uno sperduto paesino del nuorese. Il viaggio verso il padre Leone, insieme al primogenito dell’uomo che porta il nome del nonno mai conosciuto, è in realtà il viaggio verso la sua terra tanto amata, verso l’idea, il pensiero che lo aveva tenuto in vita nei momenti più duri.
Ma le cose non andranno come l’uomo spera, l’incontro con questo padre strappato nell’infanzia e ritrovato dopo quarant’anni sarà una cesura definitiva con l’universo del sogno salvifico, in un racconto che fra flashback, storie d’amore, viaggi e migrazioni, scandaglia con profondissimo senso del dolore e amore per la patria lontana il rapporto fra genitori e figli.
La Ruina è, anche in questo personaggio, grandioso interprete dell’epopea degli ultimi, dimostra come narrare significhi dover ricercare, costruire drammaturgia con pazienza e sapienza, non fermarsi alle approssimazioni ma andare a svitare i bulloni che inchiodano il senso del pudore per raccontare le tragedie con la leggerezza delle favole e le favole con l’epica drammaticità delle tragedie.
Ecco perché non serve null’altro che una sedia a questo teatro, e la cognizione del dolore e il senso di appartenenza che l’interprete restituisce ancor più si fanno grandiosi pensando ai giorni in cui questo lavoro è andato per la prima volta in scena, nelle settimane che hanno preceduto la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, in cui il postribolo del potere infangava con il suo puzzo il senso della memoria di quei molti che, anche se analfabeti, nullatenenti e sparsi per il mondo, da Ellis Island ai campi di concentramento albanesi, hanno continuato, ovunque fossero, a sentirsi “taliani”.
L’inizio di Italianesi di Saverio La Ruina
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