MARIA CRISTINA SERRA | Walter Benjamin (1892-1940) amava le piccole cose che, dentro la concentrazione minuscola delle forme, racchiudevano come uno scrigno segreto la complessità e l’autenticità del pensiero. Gli piaceva collezionare (attività “rivoluzionaria”, perché liberava gli oggetti dalla loro utilità) giocattoli, cartoline, libri illustrati per l’infanzia, fotografie, con la passione dell’intenditore che coglieva l’unicità di ciò che ai più appariva banale, per attribuirne il valore nascosto e il loro senso di “redenzione”.
Era solito archiviare la sua corrispondenza e i temi dei futuri saggi; conservava decine di quaderni e piccoli taccuini, fitti di scrittura in miniatura, ritagli di giornali sui quali annotava minuziose osservazioni. Adorava incastonare le parole, tracciate su foglietti occasionali, con disegni e schemi grafici, per visualizzare i suoi acrobatici passaggi della mente e i frammenti degli eclettici pensieri; li scomponeva e ricomponeva in ordine sparso come un incastro dalle sequenze variabili, interrotte da “citazioni” senza gerarchie di valori, ma funzionali ad introdurre dubbi, interrompere certezze, riformulare ipotesi e interpretazioni. Giocava a scacchi e leggeva romanzi polizieschi; lo intrigava Simenon. Benjamin era un uomo gentile, dai modi signorili, credeva nel valore dell’amicizia e nella capacità di amare. Le tre donne della sua vita lo “trasformarono” in tre uomini diversi fra loro, scrisse all’amico Sholem.
Aveva un profondo legame con Parigi, che definiva “Capitale del XX° Secolo”, città privilegiata per analizzare le trasformazioni della tecnica, ammantate da finalità artistiche, il mescolarsi dell’attività estetica con la produzione industriale, luogo di svelamento della fantasmagoria, mentre indisturbata la dialettica della poesia percorreva i suoi sentieri con i versi sotterranei di Baudelaire, i silenzi “formicolanti” di Hugo, il tempo perduto di Proust.
Una mostra al Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme (fino al 15 febbraio) e un prezioso catalogo (“Walter Benjamin, Archives”, edito da Klincksieck) ricostruiscono con passione le sue “visioni” cariche di rimandi, tutti quei Passages di luoghi e di saperi, che completano la sua Filosofia critica e una lettura dello svolgersi “omogeneo e vuoto del tempo” della Storia che deve cogliere “la chance rivoluzionaria per farsi profilo di sensatezza”. Perché “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”: testamento morale, alla vigilia del suicidio per sfuggire alla Gestapo (a Portbou il 26 settembre del ‘40 ad un passo dalla libertà) e illuminazione per il nostro presente.
E poi le foto della sua infanzia, la giovinezza, gli amori, gli amici che accompagneranno le tappe della sua vita (dalla Germania alla Francia, passando per Ibiza, Berna e Mosca): G. Scholem, Gretel e Theodor Adorno, H. Arendt, B. Brecht, Giséle Freund, Asja Lacis; le immagini della normalità, quando ancora non era “condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura”. Le feste di Natale, i carnevali, il figlio Stefan e la moglie Dora.
Un pannello blu riproduce la pianta di Parigi e i riferimenti di Benjamin: una fitta rete di indirizzi e di luoghi, di percorsi reali e interiori, di vita e di lavoro, di emozioni dell’anima, tracciate con parole sobrie, dense e leggere su quaderni esposti in bacheche di legno grezzo. “Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l’illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi”, scrive Benjamin con parole profetiche. Le sue recensioni ridonano verità al testo, “tonalità affettiva alle parole” e autenticità alla traduzione, come se si trattasse di ricomporre i cocci di un vaso in dettagli non somiglianti, “frammenti di una lingua più grande”.
Le pagine su Kafka esprimono la profondità del suo metodo, volutamente sospeso in una soglia fra opposti, nella penombra fra buio e luce. “Ebreo errante”, estraneo al mondo dei professionisti della filosofia nella Berlino degli anni ’20, esule fra gli esuli nella Parigi degli anni ’30, in perenne lotta per il sostentamento economico, Benjamin vive come il suo “angelo malato” la solitudine e lo sradicamento degli ebrei tedeschi della sua epoca. Le riflessioni su Kafka lo conducono “ad un crocevia” senza fine. Lo descrive bambino, triste, imbalsamato in un abito di trine e velluto, tra tendaggi e rami di palme. Estraneo a se stesso, fragile e predestinato alla sconfitta; grande nell’enigmaticità di una scrittura piena di dettagli, che rendono “ogni gesto un evento. Si potrebbe quasi dire: un dramma in sé”.
Su un foglio con la pubblicità in rosso dell’acqua San Pellegrino accenna alla scomparsa dell’Aura, come alone esclusivo, irripetibile dell’opera d’arte, che deve uscire dalle cattedrali “per essere accolta nello studio di un amatore d’arte”. Cos’è Aura? “Una trama singolare di spazio e di tempo: l’unica apparizione di un lontano, così vicino”. Arte e letteratura si alternano ai rendez-vous nei bar di Saint Germain e a passeggiate in cerca di libri d’occasione lungo la Senna, “il grande specchio” in cui si riflettono Parigi e i suoi quais. Proust è il grande poeta delle metafore, capace di donare uno spessore magnifico a ciò che sembra futile, trasformando il giorno in notte “per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi” strappati alla provvisorietà dell’istante. Il passato è il suo rifugio. Invece, per il Benjamin di “Infanzia berlinese” è il passaggio verso il futuro, attraverso delicati affreschi di oggetti, strade, persone. Le istantanee del bambino vissuto nel bozzolo protettivo della ricca borghesia ebraica già si fermavano su presagi di sventure. L’antologia di “Uomini tedeschi” pubblicata nel ‘36 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz è la parabola del declino della borghesia tedesca: bellissime pagine che anticipano la consapevolezza storica che il progresso è entrato nella tempesta.
Una foto di Giséle Freund lo ritrae nel ’39 a Pontigny, sull’argine della Senna, assorto, curvo, con un fiore in mano. E’ il tempo in cui il “marxista sui generis”, come affettuosamente lo definiva la Arendt, “che si tuffava come un pescatore di perle negli abissi” per riportare in superficie ciò che di prezioso vi giaceva cristallizzato, si dedicava alla stesura definitiva delle “Tesi di Filosofia della Storia”. La catastrofe incombe, la socialdemocrazia tedesca e francese hanno fallito: il progresso un inganno che ha corrotto la classe operaia. L’Angelo della storia, come l’Angelus Novus, l’acquarello di Klee da cui Benjamin non si separò mai, “ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, volge le spalle, contemplando le macerie, mentre la tempesta lo spinge verso un futuro incerto.
Conferenza di Florent Perrier, Consigliere del Musée d’art et d’histoire du Judaïsme per la mostra Walter Benjamin Archives
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