BRUNA MONACO | Sui muri della piccola sala dell’Argot Studio le gigantografie degli autoritratti di Munch, guardano la scena e gli spettatori. Quei colori scuri, l’espressione cupa, profonda, dei volti, profetizzano la catastrofe imminente. Lo spazio scenico è ampio e inghiotte le due file di posti che fanno da spalti: lo spettatore è senza appello catapultato nel dramma e non può che esserne avvinto: lucida la regia, misurata la recitazione, impeccabili le luci. Mobilia fin de siècle, divano, poltrona, tavolo con sedie e una porta mobile che divide la scena (la casa) in stanze quando non ci pensa Javier Delle Monache alle luci, mettendo in ombra le zone della casa in cui non avviene l’azione.
Siamo agli inizi del Novecento in un paesino del nord Italia sperduto fra le Alpi. Non sono i fiordi norvegesi e le lunghe giornate senza sole dell’inverno boreale a fare da sfondo a questa riscrittura di “Spettri”. Non c’è il pastore Manders con le sue ottuse reprimende morali, al suo posto Giovanna, una sorta di pastoressa luterana (interpretata dalla brava Rossana Mortara) amica d’infanzia di Luisa Danzi (la signora Alving per Ibsen, interpretata da Liliana Massari). Manca anche il falegname Engstrand, l’ubriacone padre putativo della cameriera che Ibsen chiama Regine e Gili trasforma in Cristina (Vanessa Scalera). L’unico uomo della famiglia è Lorenzo (Osvald) interpretato da Pierpaolo De Mejo.
La trama de “L’ultimo raggio di luce” è quella di “Spettri”: in occasione dell’inaugurazione di un asilo in onore del padre morto, un giovane figlio pittore e malato, torna alla casa materna dopo aver vissuto all’estero per vent’anni. Scoprirà la verità sulla sua famiglia e l’origine della malattia che lo porterà in breve alla morte. Di questo intreccio Ibsen si serve per creare uno dei drammi più intensi e sottili di sempre, in cui denuncia l’ipocrisia della società borghese e della religione fondate entrambe su un’idea di famiglia che non ha più riscontro nella realtà. E che molto probabilmente mai lo ha avuto.
Parla della faticosa lotta per l’emancipazione contro il potere conservatore, maschile, corporativo. Come un muro di gomma. Parla della gioia di vivere, di quanto sia difficile comprenderla e darle seguito. E di una colpa nuova, di cui nessuno prima aveva parlato. Non quella di chi commette un’efferatezza, ma di chi per connivenza o debolezza non la impedisce. È la colpa del pastore Menders, che pur conoscendo le sregolatezze del ciambellano Alving, padre di Osvald, obbliga di fatto la signora Alving a restare accanto al marito brandendo lo stendardo del dovere. E la colpa della signora Alving che in nome del dovere coniugale si rende complice del marito, e poi, per difendere il figlio dal contagio del padre, lo allontana venendo meno al dovere/piacere di crescerlo in casa propria. Ma “Spettri” di Ibsen è ancora di più, è l’ultima tappa di un cammino iniziato centinaia di anni prima da Eschilo con l'”Orestea”, e che ha avuto come principale tappa intermedia l'”Amleto” di Shakespeare: il discorso sulle colpe dei padri che ricadono sui figli. E la vendetta.
Materia densissima, insomma, su cui Gili, nel suo adattamento drammaturgico sorvola: eliminando i personaggi maschili, e con loro tutto ciò che rappresentano, eliminando scene e dialoghi acutissimi, zeppi di vita e verità. Quello che rimane è la trama, di cui si serve come d’un filo d’Arianna per arrivare al punto che per lui è nodale, su cui vuole condensare la tensione e l’attenzione drammatica: il finale. Lorenzo stremato dalla malattia ereditata dal padre (che ne “L’ultimo raggio di luce”, a differenza di “Spettri”, è esplicitata come la sifilide) chiede alla madre di aiutarlo a morire. La malattia che ha contratto è degenerativa: meglio morire che vivere come un vegetale. Che a volte essere sia peggio che non essere, e dunque il suicidio una salvezza, la morte un rifugio, Gili lo aveva già detto, magistralmente, in “Prima di andar via” che nacque come film e divenne poi lo spettacolo teatrale di cui Gili ha firmato non la regia ma la drammaturgia. Una drammaturgia impeccabile: come quelli di Ibsen i dialoghi di “Prima di andar via” erano carichi di vita e verità, sotto la superficie apparentemente anodina delle chiacchiere quotidiane. E d’altronde l’autore si era preso tutto il tempo necessario affinché la verità venisse fuori dalle battute: quasi un’ora e mezza per raccontare una cena di famiglia. Al contrario, qui Gili semplifica la ragnatela di parole refrattarie, e dunque di silenzi, ordita da Ibsen, dimenticando che, spesso, come diceva Joyce, è proprio dietro il paravento delle parole che si cela il dolore che nessuna trama, nessuna macchina narrativa, per quanto ben congegnata, può restituire.
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