RENZO FRANCABANDERA | Assistendo a “La Madre” di Mimmo Borrelli si ha la chiara percezione di essere di fronte a una manifestazione di talento puro, di una spinta alla creazione di non comune portata. In un momento così faticoso per l’individuazione di scrittori che sappiano restituire alla scena nazionale la capacità di farsi interprete nel presente come assoluto temporale, come tessera di un mosaico che è allo stesso tempo storia e Storia, Borrelli si fa riconoscibile esempio contrario, caso realmente atipico e di portata segnatamente distintiva.
Lo spettacolo, prodotto dal Mercadante e andato in scena pur fra non poche difficoltà sia organizzative che finanziarie al CRT di Milano alcuni giorni fa, è un concentrato della scuola drammaturgica napoletana, con un riferimento, almeno in questo allestimento, alle atmosfere più cupe delle regie di Emma Dante, fra La scimia, ‘Mpalermu e Vita mia. Gli spettatori possono assistere allo spettacolo in numero di 50 per replica, e si dispongono sui due lati lunghi di una pedana rettangolare di circa venti metri di lunghezza, all’estremo destro della quale siede all’inizio Milvia Marigliano in abiti consunti, un po’ pazza un po’ strega, che chiede ai suoi micini di far silenzio. In sottofondo piccoli miagolii che vengono da un mondo soffocato a-là-Poe.
Ad un certo punto, da una altissima loggia (al CRT Teatro dell’Arte allo scopo era usata uno dei balconi per i tecnici, in alto al lato del palco, dove sono in genere assicurate le luci) appare, opposto alla donna, lassù in cima, lui, l’antagonista, il suo uomo (lo stesso Borrelli), un individuo che si connota subito per la sua ruvida volgarità e il fare dominante e malavitoso. La trama di quanto segue, scritta da Mimmo Borelli e fondamentalmente ispirata alla figura di Medea, è la storia di una donna che si innamora di un uomo di malavita, dal quale ha due figli. Prima ancora di partorirli la donna viene abbandonata. La sua sarà una triste vendetta su un uomo dal quale non riesce in fondo a separarsi, e con uno stratagemma ne farà l’omicida dei figli stessi.
Come nella trama, così anche in scena, gli spettatori vengono portati sul baratro della tragedia, un baratro che si apre sotto i loro piedi e all’interno del quale scopriranno la triste vicenda dei due ragazzi, prossimi ai vent’anni ma totalmente dementi e analfabeti, vestiti di stracci e reclusi. E’ la loro stessa madre (e non a caso parlavamo di Vita mia) ad essere in parte soffio vitale e in parte elemento soffocante di queste esistenze vissute nella reclusione, nell’antro di un sottoscala che è prigione, sgabuzzino reale e metaforico dell’umanità disperata. E’ l’umanità che spesso si fa finta di non vedere, o meglio che si vuole non vedere, e con cui di colpo lo spettatore è costretto a condividere uno spazio di pochi metri quadri. Certo, lo fa guardando a questo mondo dall’alto in basso, come sempre è abituato a fare, ma di fatto si trova fin dall’inizio in mezzo al gioco scenico, visto che lo spettro visuale dell’area agìta è proprio dall’estrema sinistra in alto all’estrema destra, mentre nel mezzo, di punto in bianco si aprirà un mondo inimmaginabile per chi entra in sala.
Torregaveta, capolinea nord della linea metropolitana cumana, è la punta estrema del golfo di Napoli, con una lingua dialettale dall’inflessione totalmente differente da quella napoletana, frutto di una comunità linguistica storicamente impastata di saraceno ed ebraico, e con un sistema di suoni che non appartiene nemmeno all’area partenopea in senso stretto. Un lessico quasi estraneo a quello che ascriviamo per convenzione nazionale al napoletano, figlio di un territorio che è punto di travaso di genti di mare. Un’altra lingua, insomma, che Borrelli protegge in forma strenua e che è però in parte estranea, se non a tutti gli attori del gruppo, certamente alla Marigliano, che palesemente non tiene questa cadenza, questo dialetto strettissimo.
L’attrice cerca per gran parte dello spettacolo una dimensione che è forse troppa, spesso più vicina all’icona della ianàra, della strega, in questa interpretazione, e costringe il testo ad una cadenza sul suo personaggio che invece si svilupperebbe molto, anche e soprattutto, in controcanto con le altre figure, volutamente mezze e smezzate, che mai arrivano alla dignità sovrana di esseri umani. Perché in fondo è così, solo lui, il boss, il malavitoso, può permettersi il drammatico lusso di titaneggiare, cosa che avviene perfino nel drammatico finale che lo vede soccombere, o nel rapporto assurdo e di violenza con i figli disconosciuti.
E’ l’unico personaggio che non ha bisogno di nessuno, e vive il gradasso bisogno di affermazione di sé, del suo cazzo, della sua prepotente mascolinità, come naturale manifestazione del proprio ego. Lo sfregio della donna abbandonata è proprio nel menomare l’immagine pubblica della sua mascolinità, alimentando i figli ad alcool in tenera età e dunque rendendoli cerebrolesi a vita, costringendo il padre a doversene vergognare, quasi che il suo fosse un seme marcio. Se mai Gomorra ha avuto una esemplificazione teatrale (e parliamo dell’universo dei soprusi della subcultura borderline della periferia metropolitana nel sud Italia) quella non è certo la riduzione scenica che del libro di Saviano si ebbe qualche anno fa, quanto piuttosto questo lavoro aspro e durissimo di Borrelli.
L’irruenza, l’urgenza creativa che nell’immaginario del drammaturgo campano mescolano il mitologico e il vissuto quotidiano, si trasferiscono nei dodecametri e nei versi da tredici sillabe con cui fa parlare i suoi personaggi, ammantandoli di un’aura tragica putrescente, sporca, sfregio e omaggio insieme alla purezza del trimetro giambico o del tetrametro trocaico, poesia irregolare e sconnessa, ma al contempo solido e durevole ponte fra Euripide e il nostro presente.
Un video dello spettacolo
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