RENZO FRANCABANDERA | Come dare l’idea di un lavoro importante, accurato, senza scadere nell’eccessiva didascalia o nella seriosità di dire cose che possano apparire scontate per lettori, attori e a maggior ragione ad uno studioso di Brecht come è Claudio Longhi, il regista de La resistibile ascesa di Arturo Ui?
Siamo di fronte a uno degli allestimenti più importanti della scorsa stagione teatrale, una scommessa (l’ennesima, dobbiamo darne atto) vinta da ERT e Pietro Valenti, che ha voluto affidare a Longhi un cast importante per un’operazione rischiosa, che avrebbe potuto definitivamente consacrare o marginalizzare uno dei registi più interessanti e consapevoli del nostro panorama teatrale. Insieme a ERT, la co-produzione di Teatro di Roma. L’abbiamo visto al Teatro dell’Elfo.
Lasciando agli studiosi gli approfondimenti più intrinsecamente filologici, ritagliamo per la critica il compito, spesso più arduo, di trasmettere un sapore, un’impressione, di provare a stimolare un gusto, un olfatto, un senso, in un percorso che metta a fuoco punti di forza ed eventuali punti di debolezza di un allestimento.
Come noto, si tratta di un’opera scritta di getto nel 1941 da Brecht ormai in fuga, che attraverso similitudini neanche velate, avvicina la vicenda di un immaginario gangster della Chicago degli anni Trenta e i suoi tentativi di controllare il racket dei cavolfiori a quella del dittatore che aveva preso il potere in Germania (Longhi recupera la didascalia istruendo il pubblico con sovrascritte luminose sull’identità fra Ui e Hitler, fra l’America e la Germania, fra la città di Cicero e Vienna ecc.). Non ebbe rappresentazione che quasi vent’anni dopo.
Cassette di plastica, simili a quelle normalmente usate per la frutta, impilate, riescono a rendere l’idea di una metropoli americana con grattacieli, palazzi, inaccessibilità verticali di cemento. Lo spettatore entra in sala e trova già disposti ordinatamente in triplice filare i cavolfiori. Il clima narrativo è da subito quello del più ortodosso dramma epico brechtiano, con un corredo musicale originale, frutto della creatività musicale di Hans-Dieter Hosalla.
La trama, nota, racconta la vicenda di un uomo sostanzialmente fallito, un nulla di buono, che per una serie di circostanze incredibili e violente, complice la ricattabilità di una politica e di un sistema giudiziario molli e ormai all’ultimo respiro, riesce a demolire prima e a creare poi un sistema di potere, arrivando al controllo del tessuto economico con una modalità mafiosa. Gli attori sono chiamati a recitare, cantare, interpretare il proprio ruolo come parte di un ensamble musical-attorale, una banda che si sviluppa su un duplice piano, quello musicale e quello criminale che è della drammaturgia, esaltando il particolare talento di alcuni attori particolarmente vocati alla duplice sfumatura.
La parte più interessante e coraggiosa dell’impianto registico è quella di non fare di Umberto Orsini, nel ruolo del protagonista, l’icona teatrale da portare in giro come santo in processione, ma quella di sviluppare in modo orizzontale le abilità a disposizione, in particolare dei giovani Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti (dramaturg e interprete, poi premiato con l’Ubu per la notevolissima performance), Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis, per un’opera dal tratto corale e disperatamente, ma anche grottescamente sociale.
In questa dimensione, l’Orsini attore prende un altro respiro, mitigando le tensioni da mattatore per porre la sua esperienza al servizio di un obiettivo di ordine superiore.
Le scene pensate da Csaba Antal e ben supportate dai costumi di Gianluca Sbicca e dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero, ricreano gli interni e le strade, e la metropoli americana prende vita fra le casse di frutta, in un gioco di primi e secondi piani capace di piani e orizzonti plurali; è un perimetro scenico all’interno del quale si muovono gli attori in forma molto aperta, fino a strabordare, inondando a più riprese la platea, chiamando nel respiro dell’allestimento il pubblico, che in non rare occasioni partecipa, vive, applaude a scena aperta, vivendo il sentimento di progressiva angoscia che la regia, filologicamente brechtiana, però decide spesso di smorzare attraverso piccoli escamotage: brillante, ad esempio, quello in occasione della mattanza malavitosa finale, dove le esecuzioni vengono accompagnate da didascalia sonora fumettistica. Nulla del pathos si perde, e tutto acquista una dimensione viva, pulsante.
Lo spettacolo, come la resistenza di una lampadina d’altri tempi, si riscalda via via, fino a raggiungere una temperatura, un calore, un’intensità che di rado si respira nelle fruizioni cui siamo abituati. E’ una lettura, quella di Longhi, rigorosa ma capace di mondarsi della sovrastruttura di consapevolezze che pure il regista avrebbe potuto profondere nell’allestimento. Al contempo è indubitabile che nella chiave di lettura della regia si possa respirare la consapevolezza di scuola, ma anche quella dell’accademia. Ma in questo caso il combinato disposto delle due forze rimane grandemente equilibrato, paritariamente soppesato nelle sue componenti, capace, un po’ come Ben Hur con i cavalli della sua auriga, di togliere e dare briglia ai diversi talenti, in maniera profondamente consapevole dei punti di forza e di debolezza di ciascuno.
A questo spettacolo, dal nostro punto di vista, forse andava riconosciuto qualcosa in più in termini di segnalazioni e riconoscimenti nell’ultima tornata Ubu. Ma tant’è, ormai è andata, quindi non resta che invitare il maggior numero di spettatori a godere di queste ultime date al teatro dell’Elfo (fino al 18 marzo), contribuendo a riempire la sala, come sempre è stato in questi giorni passati, in un interessante confronto a distanza con il Brecht di Ronconi al Piccolo Teatro. Il piatto della bilancia pende, secondo noi, dal lato di Ui.
Un video promo dello spettacolo realizzato da ERT
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