MARIA CRISTINA SERRA | Arte di confine, ricerca costante ed infaticabile di un equilibrio sostanziale fra la realtà esteriore e la coscienza interiore, quella di Cezanne. Passaggio di frontiera tra la classicità “assoluta”, spogliata di nostalgia del passato, e la modernità incombente del Novecento. Studio meticoloso di uno spazio da realizzarsi in forme e prospettive dagli orizzonti allargati, volti a semplificare la sostanza delle cose e le sue incessanti combinazioni, dove i luoghi della vita e quelli dell’arte s’incontrano in una identità totale.
“Il pittore concretizza col disegno e col colore le proprie sensazioni, le proprie percezioni”, annotava Cezanne, “non si è mai troppo scrupolosi né troppo sinceri né troppo sottomessi alla natura”. Irrequieto e schivo figlio della ricca borghesia del Midi francese, ad Aix-en-Provence, la sua vita scorre metodica fra i colori e i profumi intensi della sua terra, rifugio dell’anima e ispirazione per la mente, e i rituali e lunghi soggiorni parigini, vissuti fin da ventenne, con sentimenti alternanti odio e amore, attrazione e respingimento.
Si è appena conclusa al Musée de Luxemburg una straordinaria mostra “Cezanne et Paris”, che ha ricostruito in modo insolito l’itinerario creativo, appassionante come un’intricata ed enigmatica storia d’amore, dell’artista della concretezza del visibile, inventore di una nuova “armonia parallela alla natura”, oltre alla quale liberare l’infinito attraverso una modulazione di colori pulsanti di vita e di forza plastica. Artista solitario e rigoroso, inconsapevolmente profetico, vissuto nell’oblio per gran parte della vita, refrattario a rincorrere il successo e il riconoscimento, che arrivò solo nel 1904, quasi alla fine della vita. La “Grandezza” l’aveva conquistata già dentro di sé, fra mille dubbi e una sperimentazione attraversata dalla fatica quotidiana di essere pittore in perenne “presa di coscienza critica” della realtà, in cerca della “Verità interiore” delle cose, oltre le impressioni visive.
Incastrando pazientemente tassello dopo tassello, così come per i suoi mosaici di colori vigorosi, privi di ombre, che scomponevano e ricomponevano le tele in un dinamismo dalle sorprendenti sfaccettature. Uno “sguardo tattile”, palpabile, nel quale “occhio e cervello devono aiutarsi fra loro per catturare l’inafferrabile e tradurlo in geometriche solidità, la cui resa volumetrica e spaziale è definita da pennellate dense di sostanza”. La lucentezza del nero si schiude dal fondo di un cofanetto prezioso nel quale sono custodite, come gioielli segreti, le opere giovanili dell’artista .
E allora “La pendule noire” domina con solennità la sobria composizione di oggetti resi vitali da una grande conchiglia venata di rosso posata sul tavolo, rivestito da una tovaglia bianca, ripiegata in un rigido drappeggio, che si sviluppa in verticale. E’ il gioco dei contrasti sempre presente nella sua pittura, lucente e opaca, solida e liquida. Due semplici baguette, sistemate su un candido tovagliolo, spezzano in orizzontale il fondo scuro de “Le pain et les oeufs” e stabiliscono un contatto immediato con la certezza dell’esistente.
Le mele, “modelle viventi”, animano come corpi autonomi una natura morta composta di “Tasse et fruit sur nappe blanche”, inglobata da una carta da parati che satura ogni via di fuga apparente. E’ seduto, severo, autorevole, scostante, intento nella lettura del giornale “J. Auguste Cezanne” padre, rappresentazione di quel rapporto di soggezione e incomprensione che lascerà segni indelebili di fragilità nel suo carattere. E’ di grande rigore formale il ritratto di Hortense, “Madame Cezanne dans un fauteuil rouge”: una figura monumentale nella sua indecifrabile compostezza, modellata nello smagliante blu cobalto dell’abito, reso ampio dai riflessi verdi delle righe verticali; come se i colori l’un l’altro si spingessero per appropriarsi di energie e trovare poi convergenza nel rosso della poltrona, rifugio della donna amata. Zola, amico di una vita, con il quale condivise sogni e speranze giovanili ad Aix e le prime avventure parigine, fino alla rottura traumatica nel 1886, è ritratto in modo frammentario, intimo, accovacciato in terra, avvolto da un informe caftano chiaro, lo sguardo meditativo immerso nell’oscurità della scena.
In un’altra tela giovanile, con pennellate fiammeggianti e impetuose, si ispira alla pittura di Delacroix per ritrarlo nel suo lavoro di scrittore. Disincanto e trasfigurazioni esotiche per i quadri di soggetto erotico degli anni ’60/’70: tentazioni da vivere con tormentato distacco. Anche Parigi all’inizio gli appare un po’ come una donna seducente, ma pericolosa, tentacolare e inaccessibile; ma poi impara a stabilire la giusta empatia. Ne ricerca gli angoli meno mondani, le strade lontane dal fragore, illuminate da luci fioche, intime, che nascono dall’interno dei pavè e dei muri, per espandersi all’esterno e far trovare così il giusto volume alle forme, come in rue des Saules, a Montmartre.
Dipinge la zona industriale del Quai de Bercy attraverso il caratteristico mercato dei vini, con le lunghe file di botti a segnare la Rue Jussieu. Ricostruisce la sua idea di città dai “toits de Paris”: una composizione architettonica armoniosa, suddivisa in tre piani orizzontali: la compattezza color ardesia dei tetti, la scansione alternata con tonalità pastello degli edifici, la nitidezza omogenea e grigio-chiara del cielo. Una ritmica perfetta di relazioni spaziali, che definiscono un’essenziale prospettiva in divenire. I dintorni di Parigi, la foresta di Fontainebleau, Auvers-sur-Oise, Pontoise, ospite dall’amico Pissarro, sono i luoghi ideali per definire la sua arte.
Il suo colore denso, forte, avvicina le cose, le impasta di bruni, violetti, rossi, verdi e azzurri, in vibrazioni che penetrano tra le nostre inquietudini del cuore per poi tornare in superficie. Troveranno pace, rivelazione e sintesi nei paesaggi e nelle cime delle montagne provenzali, dove le parole si sospendono per lasciare integra la realtà della natura in un impressionismo durevole, che si fa coscienza di sé.
Un video della mostra della AFP
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