RENZO FRANCABANDERA | Non si sa per colpa di chi, generalmente si evita, ma in questa stagione teatrale sono in scena due adattamenti de I fratelli Karamazov. In origine non avevo intenzione di compararli o fare un’unica riflessione, ma la visione ravvicinata dei due spettacoli ha favorito in modo naturale l’accostamento, il confronto. Cercheremo di tener separate le cose, ma anche di unire in un finale logico, le riflessioni.

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karamanzov-de monticelliI Karamazov per la regia di Guido de Monticelli che ha debuttato due settimane fa al Massimo di Cagliari ed a Prato fino al 22 aprile, è il secondo episodio di una collaborazione nella produzione fra lo Stabile di Sardegna e il Metastasio di Toscana, che ha portato in autunno alla regia Magelli con Il Giardino dei ciliegi e ora il direttore artistico dello Stabile di Sardegna, con un cast di attori che è rimasto nella quasi totalità invariato fra i due spettacoli.
L’allestimento dell’opera dostoeskjiana parte dall’adattamento del testo che, come ovvio, ha implicato la scelta su quale “Karamazov” mettere in scena, fra epopea epico-familiare e argomenti filosofici sviluppati nel testo (il dilemma bene-male compendiato nell’esistenza di un dio, il libero arbitrio dell’essere umano, la giustizia dell’uomo, l’ingiustizia di dio, ecc).
Come tutte le opere complesse che non nascono per il teatro, la riduzione drammaturgica è il primo e fondamentale passo, la scelta per certi versi apicale e “pesante” non meno della regia. Sotto questo aspetto, De Monticelli predilige il punto di vista dei fratelli, la seconda generazione, per il tramite del cui sguardo il resto si compone, ma in realtà ancor più sceglie di mettere la trama in secondo piano, per prediligere il pensiero, la riflessione più alta.
La scenografia è quasi operistica e vuole ambientare la storia in un contesto spaesato, con due strutture lignee ai lati destro e sinistro, dietro le quali si apre uno spazio vuoto molto grande. Sul fondo, che mai si illumina pienamente se non nel finale, e che resta di fatto oscuro e in penombra per quasi tutto il tempo, pendono travi spezzate, che scendono a diverse altezze dal soffitto, e che completano concettualmente l’indeterminatezza ambientale. L’unico elemento che riempie lo spazio vuoto è un lungo tavolo, quello attorno al quale ad inizio spettacolo il padre chiede al figlio: “Ma dio esiste?”.
Di qui la vicenda del violento padre Fedor (Mauro Malinverno), avido di amori e lontano dalle sue creature: i tre figli, il giovane novizio Alesa (Francesco Borchi), Dmitrij (Fabio Mascagni) e Ivan (Corrado Giannetti) dal profilo più intellettuale e turbato, sceglieranno vite diverse, ma mai slegate fra loro, in un crescere di emozioni e violenze che porterà alla morte del genitore, per sospetta mano del più focoso dei figli. Ma ovviamente nulla è come sembra, e il confine fra giusto e ingiusto oscilla in un sentimento ideale.
A qualche giorno di distanza dalla fruizione, che è sempre un test di persistenza del sapore più attendibile dell’emozione immediata, restano in mente alcuni vertici attorno ai quali la narrazione scenica si condensa.
Sono le sequenze del romanzo che sono state isolate e che in alcuni punti affiorano proprio per testimoniare la ricerca di una polisemia che vuole provare a rompere il gioco teatrale.
Avviene nel finale, quando tutto torna al libro, o nella sequenza della morte di Padre Zosima, in cui Paolo Meloni recita in terza persona il racconto della sua morte, mentre si fa icona, in un tabernacolo che racchiude in sè la potenza dell’attimo fra morte e santificazione.
E’ questo senza dubbio uno dei vertici emotivi e scenici più alti, mentre la trama pare dissolversi, per rimanere in alcuni punti criptica e non portata completamente a galla, a vantaggio di alcune riflessioni, ora filosofiche ora di dinamica familiare dalle quali emerge che un sentimento di ineluttabilità di fondo del destino a cui l’uomo soccombe, ulteriore perfino rispetto all’esistenza di un’alterità divina. Alla fine, che dio esista o non esista, il sollievo/la dannazione che trae l’uomo da questo essere/non essere è al contempo causa ed effetto del malessere stesso del vivere. Lo spettacolo stesso si apre su questo dibattito.
Questo è ciò che nella messa in scena forse vorrebbe venir fuori attraverso i dialoghi di natura più filosofica, ciò che nella riscrittura drammaturgica affidata a Roberta Arcelloni, resta, come l’impalcatura più forte su cui tutto vuole poggiare.
Ma la parola non basta a teatro, e così questi piano-sequenza fra vita, filosofia e morte, restano sospesi in una terra di mezzo fra le questioni di pensiero che il grande scrittore russo pose alla base della sua ultima opera (o almeno di quella che doveva esserne la prima parte) e la trama. La seconda senza le prime non sarebbe nulla, e le prime senza una trama sarebbero un trattato di filosofia avulso dalle vicende umane in cui il romanziere era solito calare le sue riflessioni, per rendere più laceranti i dilemmi.
Lo spazio temporale del rapporto con un grande romanzo è fatto da giorni di lettura, quello di uno spettacolo teatrale da poche ore. Già solo condensare giorni in ore, va da sè, porta a una perdita di dettaglio e alla necessità di selezionare l’informazione letteraria al servizio del teatro, impresa che, nel caso dei grandi russi, è davvero durissima.
De Monticelli ci prova, in alcuni momenti ci riesce, ma l’impianto generale costruisce la sua cupezza più in maniera indotta dal circostante che dalle trame nere che vi scorrono dentro.
Troppo testo, poco lavoro fisico, per una regia di impianto tradizionale, molto diversa da quella che Magelli aveva proposto mesi fa con lo stesso cast, allora sbilanciata su un lavoro fisico a tratti finanche eccessivo. Alcune recitazioni sono volutamente spinte verso modalità di rendere la prosa talmente ricercate e “calligrafiche”, per dirla con Massimo Marino che su questo punto ben ha reso l’idea di vizi e virtù di questa regia nel suo recente articolo di commento alla visione, che alla fine spiccano nel lavoro degli attori solo pochi frammenti di prosa tradizionale e di mestiere, vere e proprie ancore di salvataggio per chi vuole godere degli squilibri di Dostoevskij, senza che a quelli se ne aggiungano molti altri (a volte superflui) di derivazione scenica. Fra le ancore, il bellissimo discorso del servo picchiato dal figlio violento, che spiega a suo figlio il valore non monetizzabile della dignità: pura prosa, che fa emergere ancor più l’insensatezza di recitazioni spinte verso inspiegabili rapporti fra elemento vocale e parola, in cui più che i personaggi, come si vorrebbe, è la stessa lettura registica ad apparire un po’ grottesca.

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karamanzov-briePassano due settimane e al teatro dell’Elfo assistiamo all’altra riduzione scenica, quella per la regia di Cesar Brie, prodotta da Emilia Romagna Teatro. E’ innegabile che la prima sensazione, indotta dalla fruizione precedente, sia di grande leggerezza e levità.
Come già in Albero senz’ombra, Brie squadra la scena, demarca lo spazio dell’azione condelle funi, e all’ingresso gli spettatori trovano gli attori seduti intorno a quest’area quadrata, delimitata, mentre sullo sfondo pendono dalle grucce i vestiti di scena che di lì a poco gli attori indosseranno.
Dentro questo quadrato nulla. Gli oggetti di scena verranno portati dentro all’abbisogna, e riportati via. Ma sono pochissimi, spesso le stesse panche che all’inizio vedono seduti gli attori, e disposte ora a mo’ di tavolo, ora a mo’ di piccola struttura di delimitazione architettonica.
La storia è la stessa, ma come è facile immaginare è un’altra storia, perché la lettura del classico è profondamente diversa, orientata a innescare cadenze sull’incombere degli eventi, lasciando bel leggibile la trama, e affidando agli interpreti più che alla parola del romanziere il compito di scolpire i personaggi, della cui vita e delle cui vicende, con un veloce sunto iniziale, siamo resi perfettamente edotti.
Il registro, proprio per questa voglia di trasmettere il racconto, il fatto, l’epopea familiare e umana, sa oscillare fra tono ironico e tono drammatico. Brie sceglie una lettura, comunque, fresca, in cui gli episodi chiave si collegano e si avviluppano al turbine di legami fra gli esseri umani, concentrandosi poi in particolare sul tema della giustizia e dell’ingiustizia e sul sopruso, cose che si leggono in controluce nelle scelte di soffermarsi sugli episodi di più cupa violenza, come quelli sui bambini di cui il testo racconta. I bambini sono qui tre manichini di impressionante realismo realizzati da Tiziano Fario, che a fine spettacolo rimarranno soli in scena seduti ad una panca, mentre gli spettatori defluiranno.
Il cast è composto da un gruppo di giovani attori, che hanno vissuto con Brie l’esperienza della costruzione in laboratorio dello spettacolo.
Da questo giovane gruppo il pedagogo riesce a ricavare un lavoro compatto, dove la chiave di lettura è omogenea, anche se non mancano le ingenuità, che a tratti impoveriscono lo spettacolo: il dramma delle vicende a volte solo l’età (e l’esperienza) degli interpreti sa regalarlo.
Così, se le vite dei figli sono affidate ai giovani, quelle dei padri (Fedor, ma anche Zosima, e il servo picchiato) sono affidate allo stesso Brie, che vive queste paternità con sentimento vivo, fino al finale che racconta la morte di un figlio. A rivedere lo spettacolo sotto questa luce, è innegabile che questo tema della paternità sia un elemento-alimento forte nella scelta di quale Karamazov raccontare.
Lo spazio temporale del rapporto con un grande romanzo è fatto da giorni di lettura, quello di uno spettacolo teatrale da poche ore. Già solo condensare giorni in ore, va da sè, porta a una perdita di dettaglio e alla necessità di selezionare l’informazione letteraria al servizio del teatro, impresa che, nel caso dei grandi russi, è davvero durissima.
Brie ci prova, in alcuni momenti ci riesce, ma la scelta di evitare quasi totalmente l’enfasi sul testo, che viene ripreso tal quale solo in piccole parti, tralasciando i temi più filosofici e il prevalere delle parole del grande autore russo sui frequenti momenti di sintesi, impoverisce l’impianto generale di alcuni elementi che restano troppo in secondo piano, perché l’allestimento si armi di una solidità intrinseca che completi il tema della sofferenza, della mancanza, di quello che dai genitori non abbiamo avuto e che come esseri viventi non siamo capaci di trasmettere.
Piacevoli anche se a volte un po’ ingenue, le musiche dal vivo e le luci eseguite senza computer: a volte l’errore si percepisce, e in un caso, nella replica a cui assistiamo, il veloce passaggio da una dissolvenza a quella successiva avviene con lentezza, tanto da far pensare al pubblico di trovarsi al buio di fine spettacolo, provocando un applauso.
Brie, durante la replica, quando è fuori dal ring scenico, non di rado passa fra i suoi ragazzi, accarezzandoli, facendo sentire ai giovani attori il pathos del grande teatro pieno ma anche la presenza del padre fuori scena. Ma nessun padre può chiedere ai figli più di quanto questi possano e debbano dare, Brie lo sa, forse per esperienza, forse per vita, e quindi cuce il classico russo sulle spalle del gruppo.
Ma Dostoevskij arriva ai Karamazov alla fine della sua vita, mentre questi attori sono all’inizio della loro carriera. In questo spazio di esistenza c’è esperienza, sentimento, frustrazioni, gioie e dolori che l’età tardo adolescente ancora non ha vissuto.
Quindi il giovane gruppo racconta quello che può, quello che deve, che è comunque tanto, ma manca di quella pregnanza forte, filosofica e più in generale di pensiero, che un legame con un testo così forte reclamerebbe.
La visione esemplificatrice del nostro punto di vista è nella scena in cui il servo seppellisce il giovane figlio scomparso. In questa scena Brie chiede ad alcuni suoi attori di seguirlo quasi in processione e di fare quello che lui stesso fa, prendendo ciascuno un manichino e portando questo figlio nel trapasso verso la morte, fino ad adagiarne il corpo in un giaciglio mortuario: in questo episodio, a nostro avviso, è solo Brie che vive, che trasmette l’emozione del padre. I ragazzi non hanno la presenza scenica per trasmettere questa temperatura.
Se quindi la hyubris di De Monticelli rispetto al romanzo è quella di voler sfidare la densità del pensiero del romanziere senza alleggerirla, cercandola e portandola tal quale in scena, spesso modulandone solo il recitato vocale (ma alcune parole hanno bisogno del rapporto con l’immaginario della lettura, non possono essere portate in teatro con lo stesso effetto e la stessa potenza), quella di Brie è quella di lasciare solo su di sé il peso del confronto generazionale, schiacciando tutta la parte di pensiero, di profondissima elaborazione emotiva di Dostoevskij, su spalle troppo giovani per portare questo peso, e adattando così il testo in maniera forse un po’ troppo semplice, tanto che perfino della figura paterna di Fedor, non poche sfaccettature restano inespresse.
In questa antinomia, in questa contrapposizione di punti di vista che si rivelano parziali entrambi, è condensato il rischio di rileggere per il teatro i romanzi. Il calibro del testo letterario che non nasce per il palcoscenico è percepibile, tanto nella sua troppa presenza che nella sua voluta assenza.

Un video promo de I Karamazov di De Monticelli
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=leOkg0EShK4]

Alcune immagini video del Karamazov di Cesar Brie nel video realizzato da ERT

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kuBob-yQ-_g]