BRUNA MONACO | Daniele Timpano è solo sul palco, come sempre: è interprete e regista di questo “Aldo Morto” andato in scena al Palladium e di cui è ha firmato anche la drammaturgia. Una drammaturgia matura e solida, nonostante l’impostazione frammentaria e la sovrapposizione dei piani narrativi, delle voci, dei punti di vista.
Aldo Moro e la sua tragica storia sono al centro dello spettacolo, ma tutt’intorno gravitano digressioni, riflessioni, citazioni colte e popolari. Tutt’intorno c’è un contesto che non è solo storico, ma anche personale, perché Timpano non vuole raccontare la verità dei fatti: ai fatti certi (o dati per certi) somma quelli soggettivi, la sua percezione dei fatti. In questo modo “Aldo Morto” si tira fuori dal teatro di narrazione. Quella di Timpano è una prova d’attore (brillante) che si serve a pretesto di un evento storico relativamente lontano nel tempo, e racconta il presente più del passato. Una condizione personale (probabilmente condivisa da una generazione, la sua, la nostra), lo spaesamento, l’impossibilità a comprendere i fatti, la politica.
Timpano interpreta il ruolo di se stesso-narratore, del figlio immaginario di Aldo Moro, dei brigatisti Renato Curcio e Adriana Faranda, di un giornalista che parla in diretta da via Fani il 16 marzo 1978. Ne fa parodia, irride le mille narrazioni – seriose, tragiche, servili, fittizie – che sono state fatte sul caso Moro. Racconta, ricordando quello che tutti sappiamo, poco, attraverso le parole originali della stampa dell’epoca, dei comunicati dei terroristi, degli aneddoti raccontati dalla vera figlia di Aldo Moro, Agnese, nel suo libro.
Le fonti sono originali eppure a Timpano la verità non interessa. Perché quella verità non la sa nessuno, tranne chi nella stanza-prigione di tre metri per tre c’era. Uno di loro è morto, e gli altri si ostinano a tacere. Timpano fraziona gli eventi e giustappone le parti, non le collega fra loro col filo di un senso, lascia che sia il pubblico a farlo. La realtà si presenta ai nostri occhi come il risultato della somma delle parti, la si dà per scontata, come se fosse ragionevole, matematica. Ma in Italia, dice in qualche modo Timpano, non sempre 4 = 2+2. E allora abbiamo che Curcio è un ex brigatista autore e direttore di una casa editrice, che scrive della situazione carceraria italiana, del mondo del lavoro, ma della verità sulle brigate rosse, quella che tutti vorremmo (e dovremmo) conoscere, tace. La verità non vuole dirla nessuno. E allora tanto vale non stare a cercarla, tanto vale stare a guardare e constatare amaramente. Evitare le teorie.
Come ogni giovane artista Timpano è alla ricerca del proprio stile, cerca di raggiungere consapevolezza e padronanza dei propri mezzi, e “Aldo morto” dimostra che la sua ricerca procede nella direzione giusta: la sua tecnica è affinata, non solo sul piano drammaturgico, ma anche su quello attoriale. Timpano è riuscito ad asciugare la recitazione pur mantenendola così caratteristica. L’andatura dinoccolata e l’irrefrenabile impulso a muoversi anche quando è fermo, poi, in “Aldo morto” assumono un significato drammaturgico, incarnano lo smarrimento, il nostro essere in balia non tanto dei fatti, ma di coloro che ce li raccontano. In fondo, per noi che, come Timpano, a quell’epoca eravamo appena nati o ancora non nati, Aldo Moro è un nome importante, ma in testa non ne abbiamo che qualche immagine, lui con dietro la stella dei br, la Renault 4 rossa (gli splendidi gli oggetti di scena costruiti da Francesco Givone). Aldo Moro è morto, dice Timpano, è una tragedia: ma chi era Aldo Moro?
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