BRUNA MONACO | Da bambino Daniel Buren (oggi scultore e pittore francese acclamato nel mondo) incontrò il circo. Erano gli anni Quaranta, e per lui fu una di quelle rare esperienze che influenzano una vita intera: come non riconoscere nelle righe verticali che caratterizzano le sue opere i tendoni del circo dell’immaginario collettivo? Nel 1998, poi, creò una sua compagnia insieme a Dan Demuynck: il BurenCirque, appunto, che con “Nord/Sud” ha aperto la seconda edizione del Festival Apripista. A organizzare il tutto l’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Quest’anno la cornice è più circense che mai: non sono le sale dell’Auditorium a fare da sfondo agli spettacoli, ma uno chapiteau firmato Daniel Buren, che campeggia sulle rive del Tevere, proprio sotto il neonato Ponte della Musica. E, come nel circo d’una volta, lo spettacolo precede lo spettacolo: un’installazione plastica fatta di bandierine e ombrelli rovesciati, rigorosamente a righe verticali bianche e rosse, aspetta il pubblico davanti al tendone. Insieme al funambolo Didier Pasqualette che passeggia su un filo teso a dieci metri da terra e Tatiana Bongoga che, su un altro filo a qualche passo da lui, danza sulle note di Mamadou Kouyaté e Baba Kouyaté. Il pubblico si muove, sceglie dove posare lo sguardo.
Una volta dentro il tendone, di nuovo toccherà scegliere cosa guardare: lo spazio scenico, racchiuso in un velo tubolare che scende dal soffitto, è diviso all’interno da pareti di velo. Vediamo gli artisti come da dietro una coltre di nebbia. L’atmosfera è cupa, la scena nascosta, la spettacolarità del circo rovesciata, quasi negata. Con le luci basse, gli interpreti girano intorno allo spazio scenico, con circospezione, attenzione, si presentano al pubblico: Armance Brown,
Christelle Dubois, Grégoire Vissého, Hawa Sissao, Elod Trager, Alexandre Picheral,
Baba Kouyaté, Mamadou Kouyaté,
Zélia Rault. Vengono dalla Francia, dal Bénin, dal Burkina Fasu. Europa e Africa, Nord e Sud nello stesso spazio, lo spazio eclettico del circo. E infatti uno è giocoliere, gli altri equilibristi, acrobati. Un percussionista, una cantante. Zélia Rault suona il fagotto. Grégoire Vissého fa danzare una marionetta a fili, poi una marionetta a grandezza umana, qualcuno disegna l’aria con due ventagli rossi. Una stanza della scena è pavimentata di secchi d’acqua, a righe verdi e gialle: Christelle Dubois come una mondina vi immerge i piedi scalzi, cammina con una lentezza sacra, poi si produce in una verticale e gesticola con le gambe, indica con i piedi.
Intanto a cinque metri dalle nostre teste Didier Pasquelette e Tatiana Bogonga sono in equilibrio sul filo. Quelli di lei sono i movimenti tribali della danza africana, non leggiadri, ma terreni, sensuali, in splendido contrasto con l’aria, il filo sottile che la sorregge, il vuoto che la circonda. Le azioni sfumano le une nelle altre, a volte si sovrappongono, ma i passaggi sono sempre ben modulati, e l’impressione non è di affastellamento, ma di densità. Lo spettatore inghiotte con ingordigia la scena, vorrebbe trattenere ogni immagine. Potente collante dello spettacolo, la voce di Hawa Sissao (una star nel suo paese) che riempie lo spazio.
Poi la cortina davanti al pubblico crolla, in un movimento morbido e rapido, e la luce comincia a farsi intensa. Cadono i veli che frammentano lo spazio scenico. Cadono i muri che separano gli artisti, gli uomini, il nord dal sud, il noi dagli altri.
Uno spettacolo d’eccezione, sbarcato a Roma grazie al direttore artistico del festival, Gigi Cristoforetti, che per il secondo anno offre all’indolente pubblico romano uno squarcio del miglior circo – stavamo per dire del miglior teatro – in circolazione.
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