BRUNA MONACO | Homo homini lupus, diceva il poeta: l’uomo è il peggior nemico dell’uomo. La compagnia francese fondata da Alexandre Fray e Frédéric Arsenault fa proprio il dixit di Plauto e si battezza Un loup pour l’homme. Che i rapporti interpersonali siano il perno attorno a cui gira il lavoro drammaturgico e fisico della compagnia appare chiaro, meglio: dichiarato. E il circo, quello contemporaneo, fondato sui corpi e sulle idee, ben si presta a esplorare questo terreno. Lo spettacolo che Fray e Arsenault hanno presentato a Roma e con cui si è chiusa la rassegna Apripista, si intitola “Face nord”, espressione che in francese designa la facciata di una montagna da scalare. In scena ci sono quattro uomini e nient’altro: Alexandre Fray e Mika Lafforgue sono massicci, statuari, i due porteur, le fondamenta su cui il quartetto di acrobati innalzerà dei veri e propri edifici umani in continuo movimento, sotto gli occhi di un pubblico attento, attratto. Frédéric Arsenault e Sergi Parés sono invece snelli e flessibili, i voltigeur, ovvero le mura e i tetti di quegli edifici umani. Come tappeto sonoro il passaggio dei corpi sul suolo: passi, cadute, ma anche respiri. E delle musiche del repertorio classico che di tanto in tanto rompono il silenzio accentuando il colore delle azioni, o contrastandolo. Anche le luci di scena sono semplici, ma efficaci rispetto al senso dello spettacolo: quattro fari illuminano gli acrobati da angolature sempre diverse, fuori e dentro metafora gettano luce sui vari lati delle relazioni tra gli uomini. Uomini intesi per una volta proprio come maschi, non come umanità. La carica erotica e omo-erotica dello spettacolo è forte: tanta tenerezza nel contatto, anche nei momenti di sfida, di scontro. Homo homini lupus, eppure in “Face Nord” domina la tenerezza, l’attenzione all’altro. La parte migliore del cameratismo maschile. Anche se ci si scavalca, ci si sfugge. Anche se tutto finisce (spettacolo incluso) con l’abbandono, la solitudine.
Con “Face Nord”, Alexandre Fray, Frédéric Arsenault e il regista Pierre Déaux, cidicono che instaurare delle relazioni, vivere in società, è complicato almeno quanto scalare una montagna. Che se si cerca un vero dialogo con gli altri è necessario essere disposti a superare i propri limiti, i propri pregiudizi. Soprattutto, che nulla che abbia a che fare con gli altri è dato una volta e per sempre. Ce lo dicono in termini circensi, teatrali, non fissando lo spettacolo, ma lasciandolo libero di cambiare a ogni replica: la sequenza delle azioni è sempre la stessa, ma l’improvvisazione all’interno della partitura rende vivo lo spettacolo. E allora una sera uno dei voltigeur riuscirà a fare un salto di più di tre metri dalla schiena di un porteur all’altra, quella dopo, forse, cascherà prima, sarà schiacciato dai suoi limiti. In questo la relazione col pubblico è dinamica: gli attori (sì, Fray, Arsenault, Lafforgue e Parés oltre che grandi acrobati sono attori bravissimi) lo chiamano in causa attraverso sguardi e piccoli ammiccamenti, il pubblico contribuisce alla riuscita o meno di certe acrobazie, stando più o meno attento, più o meno in silenzio. Gli spettatori rappresentano in qualche modo “la società” che condiziona e ci condiziona nel modo di essere con gli altri. Il tutto è possibile grazie a una struttura drammaturgica forte (di Bauke Lievens) e al contempo elastica.
La coscienza dei propri limiti, la persistenza a tentare di superarli e la volontà di mostrare al pubblico la propria la fragilità, a ben vedere, sono in controtendenza rispetto al circo classico, che cerca solo di sorprendere e ammaliare lo spettatore e non accondiscende a svelare il trucco, il circo per cui il fallimento di un numero è il fallimento dello spettacolo. “Face Nord” fa invece del fallimento una tappa drammaturgica, tappa della scalata di questa montagna dissestata che è lo spettacolo, le relazioni interpersonali. Del resto proprio nella negazione della volontà di potenza e della rappresentazione come macchina per gli inganni risiede la cifra stilistica che Gigi Cristoforetti imprime alle sue direzioni artistiche. Non ci resta che sperare che l’anno prossimo Apripista ci sia ancora, e di più.
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