RENZO FRANCABANDERA | Le serve di Genet, con la regia di Lorenzo Loris, interpretato da Loris stesso insieme a Elena Callegari ed Elena Ghiaurov (in questi giorni all’Out off di Milano) è una versione dell’opera filologica, coerente, rispettosa del testo e di quello spirito ambiguo che lo anima.
Nella drammaturgia, infatti, tutto si modifica, sia nella percezione dello spettatore, sia nei rapporti di forza tra i personaggi, artefici di triangoli in cui spesso uno dei vertici scompare o diventa improvvisamente cieco. Lo spettatore quindi è chiamato a giocare a tressette col morto, dovendo di volta in volta intuire non solo quello che sta succedendo, ma anche le più improbabili derive psicologiche a cui tutto dà luogo. Le due Elena interpretano le serve e, come noto, ad inizio spettacolo, giocano l’una a servire (Callegari) l’altra a fare l’altezzosa padrona assente (Ghiaurov).
La scena: un cubicolo coperto da un tessuto nero ma trasparente, che delimita un’immaginaria stanza da letto, quella della signora l’accesso alla quale, scopriremo, è una sorta di violazione del santuario. Fuori da questo piano centrale rialzato, pochi oggetti, un reggi abiti a ruote, la cornetta di un telefono appesa ad un filo e pochissimo altro.
Al di là della recitazione, tutto il resto si connota per un gusto minimale, dalla scena dove oltre al cubicolo poco altro resta, alla musica, con inserti elettronici e classici di breve durata (ma da sfumare meglio) fino alle videoproiezioni, usate in maniera quasi impercettibile, unite ad un gioco luci misurato ed efficace. Funziona assai bene il recitato e anche la notevole idea di Loris di portarsi in scena vestito da signora d’altri tempi, in mise completamente bianca, come una Wanda Osiris appena uscita, in gran fretta, da una sala televisiva.
Dalla comparsa della signora in avanti, il ritmo del narrato scenico aumenta e diventa più vivo ed interessante, mentre la prima parte soffre un po’ come di un’assenza di un’idea altrettanto forte e vigorosa, una sensazione che resta anche alla fine dello spettacolo, dove non manca qualche superflua didascalia, proprio nella scena che racconta dell’omicidio-suicidio di una delle due serve (l’una che indica le manette mentre costringe l’altra a bere il veleno).
L’idea che ci resta è quella di un lavoro che, dal punto di vista tecnico e delle interpretazioni, non ha sbavature, sa mantenersi misurato, senza essere sguaiato mai, avvertiamo la mancanza di un sussulto, di un’idea che un po’ ci lasci davvero a bocca aperta. Fra queste, in cui meglio si sviluppa l’intreccio di gioco registico, recitazione ed elementi scenici, la sequenza in cui le due serve litigano mentre arriva il trillo del telefono che preannuncia la liberazione del marito della signora finito in prigione per macchinazione delle due. Il trillo, abbinato ad un interessante cambio luci, pare proiettare le due sullo sfondo, ma di fatto si capisce che l’ombra è falsata, perché è quella di un telefono gigante.
Interessante anche l’epifania di Loris e e la grandezza attorale delle due interpreti femminili, due mattatrici di temperatura così diversa e quindi così belle da vedere vicine, nell’intrecciarsi delle loro voci, l’una più bassa e roca, l’altra più alta e impostata, ma anche la fisicità e la femminilità, che solo in apparenze sottende rapporti di forza scontati, ma che proprio nel finale troverà un esito anche concettualmente sconvolgente rispetto ai parametri di “incarnazione del potere o della forza” cui la nostra società ci abitua.
Siamo sicuri la cosa, considerando la sensibilità del regista che da anni indaga su queste sottili questioni di rapporti di dipendenza psicologica e di forza all’interno dei nuclei ristretti (si vedano le recenti e sempre interessanti messe in scena di Pinter, Beckett, ecc), non sia casuale.
Disegno di Renzo Francabandera
Un videopromo dello spettacolo
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