ANDREA CIOMMIENTO | Lo abbiamo conosciuto all’inizio dell’autunno porteño. Il nostro viaggio teatrale prospettava la realizzazione di una serie di reportage intitolati Distrazione Buenos Aires sul vivace turbinio culturale della capitale argentina (anno 2010). Con un oceano di distanza alle spalle eravamo pronti a incontrare Rafael Spregelburd, autore e regista quarantenne già conosciuto dal pubblico europeo per la sua presenza in teatri come il Royal Court di Londra, il Deutsches Schauspielhaus di Amburgo e lo Schaubühne di Berlino; un artista dal raffinato pensiero ancora poco conosciuto in Italia e tradotto soltanto da piccoli gruppi indipendenti. La nostra chiacchierata, durata un intero pomeriggio e confortata da un tè nero bollente, aveva lasciato spazio ai suoi racconti biografici e ai pensieri sull’imminente debutto italiano di Bizarra, diretto da Manuela Cherubini per il Napoli Teatro Festival, uno spettacolo a episodi (realmente bizzarro) sulla crisi finanziaria argentina d’inizio millennio. Nei mesi a seguire l’autore è ritornato nel nostro paese in diverse occasioni ricevendo menzioni ufficiali e riconoscimenti artistici (Premio Ubu 2010 come Miglior testo straniero) grazie alla sua poetica di ficción portata in scena da compagnie e registi, tra cui Luca Ronconi con La Modestia per il Piccolo Teatro di Milano. Da pochi giorni è stata annunciata la presenza di Spregelburd all’École des Maîtres, il percorso europeo di formazione itinerante ideato da Franco Quadri. Il CSS di Udine, principale promotore del progetto, continua ad assurgere la ricerca artistica e la qualità pedagogica con maestri dal soffio vitale…
Rafael, l’École di quest’anno s’intitola “Cellule teatrali- Macchine per produrre catastrofi”. Qual è la più grande catastrofe del nostro tempo al di fuori di ogni regolare e prevedibile pensiero? Credo che la parola “catastrofe” nella nostra vita quotidiana venga utilizzata con una forte connotazione negativa anche se non dovrebbe necessariamente essere così. Nella catastrofe sembra proprio che gli avvenimenti non seguano il modello di causa-effetto, quello che però la teoria del caos ci insegna è che in realtà non c’è semplice disordine in essa ma piuttosto un ordine più complesso, che in quanto tale non può essere totalmente percepito dalla Ragione.
Come immagini questo ordine più complesso che molti chiamano caos? Mi piace immaginare complesse linee drammatiche, con motivi simultanei, motivi per una stessa azione, sovrapposizioni decentrate di figure e sfondi, cause senza effetto o effetti senza cause apparenti… Questa forma di linearità narrativa la chiamo “catastrofe”. Inoltre la nostra conoscenza del mondo contemporaneo è mediata da tutti i tipi di specialisti: i banchieri vogliono spiegarci che si avvicina la fine dell’Occidente e nessuno osa contraddirli del tutto perché servono molte pseudo-conoscenze specifiche per sviscerare il groviglio che loro stessi hanno costruito, così tutta la certezza diventa opaca, densa e sospettosa. Penso che sia un buon momento per il teatro. Esso può riprodurre, mettere in scena, demistificare e rimodellare questa sorta di “postilla nel contratto” che regge il potere globale di chi ci governa e ci tormenta.
In questi ultimi anni stanno mutando le vecchie assi d’equilibrio globale tra centri e periferie urbane… Oggi come in tutte le altre epoche i centri sono i centri e le periferie continuano a essere le periferie. Questo non è cambiato. Quello che semplicemente accade è che quando il centro agonizza d’incertezza immagina che nelle periferie si conservi un “sapere” differente, liberato dal gioco oppressivo dell’agonia di un modello centrale. Non è così: le periferie sono, per definizione, luoghi lontani dai centri perché tendono semplicemente a riprodursi. Nonostante questo, nelle periferie può generarsi un sensibile disequilibrio di priorità, una macchina che funziona inopportunamente, un’immaginazione ingenua e creativa delle utopie ed è per questo che a volte provocano l’illusione dell’Eden.
Il teatro prova fascino verso questa immaginazione creativa… Nel teatro le periferie sono molto appetitose. Non si reggono sulle stesse regole della logica centrale di mercato ed è per questo che le sue produzioni e riflessioni offrono un respiro di libertà, di paura e di sorpresa. Però non dimentichiamoci, la libertà di quest’arte scenica si basa su un prezzo abbastanza alto: la sua marginalità.
L’École è un progetto di formazione itinerante con allievi attori europei. Questo comporterà un approccio diverso nel modo in cui condurre la formazione teatrale e la creazione poetica? Sono abituato a lavorare sul modello di “drammaturgia per attori”, osservando in condizioni di laboratorio come si costruiscono le scene per un gruppo specifico di attori. La novità in questo caso è che gli alunni provengono da quattro paesi diversi (Italia, Belgio, Francia e Portogallo). Questo presuppone non solamente quattro lingue differenti ma anche, e soprattutto, quattro appartenenze culturali diverse.
Lavorerai su questo… Immagino che il contrasto delle tradizioni sarà la stella di questo progetto, e io -che non mi trovo troppo bene con l’idea di “tradizione”- spero di poter mantenere in alto la bacchetta per coordinare questa orchestra di dissonanze.
L’Italia ha fondato i suoi ultimi trent’anni in una cultura mediatica dove tutto si è trasformato in spettacolo tramite una bizzarra contaminazione dei mondi porno-politico-economico-sociali. È possibile costruire finzioni (ficción) in un paese come il nostro? Questa è una domanda fondamentale. L’Italia è un esempio facile per tutte queste cose menzionate, però non è l’unico. La maniera nella quale la politica e la vita pubblica è tornata finzione (ficción) in molti paesi mostra evidentemente l’indirizzarsi delle culture verso gli stratagemmi della rappresentazione con tutte le proprie varianti: l’impostazione, l’esagerazione, il grottesco, la tragedia. La scena politica è proprio questo: una scena. Gli attori hanno come tenaci competitori i politici ma la cosa più grave è che dobbiamo sedurre un pubblico già arduamente abituato a non credere a nulla di quel che si sta trattando in nome di altri, vale a dire: nessuno che dica di sentirsi “rappresentato”.
La professione teatrale si complica… Certo, il nostro lavoro si fa ogni volta più difficile. Per questo in alcuni paesi si coltiva un teatro chiamato “postdrammatico” (vecchiume degli anni Novanta) come un’alternativa di falsa novità: un teatro senza rappresentazione. Credo che il vero problema non passi da lì ma dalla complessità dei racconti che il teatro decide di affrontare. Dalla fábula semplice e riduzionista possiamo passare con coraggio a un teatro realmente seduttore e problematico: quello senza messaggio univoco, che rinnova i procedimenti che lo vedono nascere e che si progetta verso il futuro proponendo le domande che una comunità di senso ancora non si è degnata di formulare. A guardar bene, il teatro che oggi intendiamo come “classico”, ha sempre fatto questo, a volte senza saperlo.
Il lavoro con gli allievi europei sarà indirizzato verso una creazione drammaturgica che nasce dall’attore e non solamente da un regista che dirige e comanda secondo una concezione europea della regia… Non credo nella divisione di ruoli schematici. Quel che posso dire è che attorno al teatro d’arte di Buenos Aires (che è enorme, con quasi 300 sale di teatro alternativo) sembra già radicato il fatto che gli attori, i ballerini o gli interpreti sono le vere assi del teatro, e sviluppano strategie per costruirsi teatralità attorno. A volte -come nel mio caso- molti attori diventano registi dei propri testi. Io non ho diretto testi che non fossero scritti da me tranne che in due rare occasioni e ho sempre scritto testi per un gruppo determinato di attori. Il lavoro del drammaturgo, “da scrivania”, che non partecipa alle prove, è ogni volta più raro nella mia città. Questo non vuol dire che non ci siano grandi registi che siano guide di una poetica molto singolare, e che possano imprimerla sugli attori o artisti con i quali lavorano. Tuttavia questi buoni registi sono (se vediamo gli esempi) attori che hanno deciso di dirigere perché dovevano farlo. Non è molto comune questa illusione (che a volte si opera in Europa) secondo la quale il drammaturgo o il regista posseggano uno statuto “superiore” agli attori ridotti a meri braccianti, interpreti dell’idea di un altro. Noi valorizziamo la linea personale di ogni attore, e ci piace molto scrivere per e con questa singolarità poetica che ogni attore sviluppa come artista unico e irripetibile.
Dopo il fenomeno teatrale Spregelburd, ora sta debuttando in Italia Claudio Tolcachir con le ultime produzioni del Piccolo Teatro di Milano. Cosa può trasmettere il teatro argentino in un sistema come il nostro? Non lo so esattamente. La categoria “teatro argentino” mi risulta troppo estesa per supporre che ci sia qualche tratto distintivo chiaro e trasmissibile. È la domanda che si formula al povero antieroe della mia opera Apàtrida: “Cosa è l’arte nazionale? C’è qualcosa? Ha territorio il cumulo esile di un gruppo eterogeneo che condivide uno stesso passaporto?”. L’ironia con la quale formulo la domanda suppone la risposta: no. È molto difficile per un attore farsi carico del proprio mondo immaginario, ancora più difficile caricare sulle proprie spalle tutto un paese.
Buenos Aires vive un particolare momento di fertilità artistica… L’eterogeneità di diversi registi che lavorano oggi simultaneamente a Buenos Aires fa pensare che è uno strano momento, alcuni critici lo hanno chiamato: “micropoeticas”. Un momento storico che ha fatto cadere le grandi tradizioni dei maestri che facevano scuola impregnando dei loro segni i propri discepoli, sono anche caduti i presupposti tecnici di apprendimento della recitazione, sono entrati in crisi anche certe categorie confuse come classico/avanguardia, realista/assurdo, presentativo/rappresentativo, impegnato/intrattenimento, commerciale/alternativo. Quando uno spazza via queste nubi rimangono solo le poetiche molto singolari, molto isolate, dove la grande festa, il grande valore, costruisce la pluralità. Per sopravvivere oggi nella scena teatrale a Buenos Aires è necessario coltivare un pezzo di terra irripetibile, singolare e proprio.
Come coltivare questo pezzo di terra irripetibile? L’originalità non ha tanto a che vedere con la novità, bensì con la singolarità poetica con la quale si decide di mescolarsi negli stessi elementi di sempre, un teatro d’arte che non copia modelli già installati. Nonostante questo, visto da un paese straniero come l’Italia, è possibile che si trovino tratti comuni tra nomi che a noi appaiono molto distanti: in quasi tutt
i gli artisti rilevanti della nostra generazione si trova una passione violenta, che a volte meraviglia gli scenari europei, tanto professionalizzati quanto burocratizzati. Ci sono registi c
he fanno teatro nella propria casa per venti o trenta spettatori con lo stesso rigore e lo stesso amore con il quale altri lo fanno per mille. Altri sono capaci, per esempio, di provare un’opera nel corso di due anni… Siccome nessuno ci finanzia, nessuno ci rincorre: il risultato e gli spazi del nostro lavoro saranno decisi dalla cooperativa artistica che integra gli attori. Questa è una costante negli esempi del teatro argentino che saranno perseguiti, si spera, anche nelle scene italiane. Siamo come piccole fabbriche prese dai suoi operai. Non produciamo niente di utile; non vendiamo prodotti. O forse sì: quel che produciamo si chiama “senso”.