RENZO FRANCABANDERA | La ricerca teatrale di Antonio Latella si sviluppa da anni per aree tematiche. Il “Don Giovanni a cenar teco” è il confronto del regista con il tema dell’amore come conquista, come solitudine, come ricerca.
Lo spettacolo è una produzione di un anno fa e porta in sé alcune ricerche, eminentemente dal punto di vista scenico, che hanno poi trovato esito compiuto nella regia di Tennessee Williams del regista campano.
La scena è vuota. Fa eccezione un drappo di broccato giallo largo circa un metro e mezzo, che pende sulla destra del palcoscenico a creare una quinta artificiale. L’impianto luci prevede oltre ai posizionamenti in alto, un grande faro che viene spostato con l’ausilio di una sedia a rotelle, e che ad inizio spettacolo viene spinto dal fondo del palco verso il pubblico, quasi ad abbagliarlo.
All’ingresso del pubblico in sala, due personaggi si fronteggiano, seduti ad un lungo tavolino con gambe basse, seduti anche loro su sedioline basse. Sul tavolino giocattoli di plastica. E’ la dimensione del gioco, della leggerezza. E’ un don Giovanni giovane, incosciente, che seduce e abbandona una delle sue vittime.
Ma non è l’unico don Giovanni che vedremo in scena, perchè di Don Giovanni questo allestimento cerca di raccontarne più d’uno, con l’ambizione di approfondire sfaccettature meno indagate ma pure attestate nel paradigma letterario del personaggio, come, ad esempio, la sua passione per l’universo matematico.
La drammaturgia è affidata ancora a Linda Dalisi ma firmata anche da Antonio Latella, e deve confrontarsi con figure archetipiche, con i vertici non solo poetici ma anche psicanalitici ante litteram dello straordinario libretto di Da Ponte, ad esempio, o degli altri testi illuminati che hanno scolpito nei secoli la figura letteraria.
Per evitare un confronto uno ad uno, la scelta è quella di raccontare più di un Don Giovanni, in un seguirsi di ambiguità, di sverginamenti del rapporto con il pubblico e con la sua idea di un personaggio “lirico”, che invece viene portato sulla strada.
Ad interpretare il lavoro è in gran parte il gruppo di giovani attori legati al progetto della Compagnia Stabile-Mobile che Latella aveva messo insieme nell’anno passato al Teatro Nuovo a Napoli, alcuni impegnati nel progetto Fondamentalismo, nelle interpretazioni di nuove drammaturgie dei giovani scelti da Latella per un percorso di crescita sul modello tedesco, come i giovani Fior e Vacca.
In scena vanno Caterina Carpio, Daniele Fior, il Don Giovanni più giovane e irrequieto, attore in crescita che ricordiamo nella versione riletta da Linda Dalisi di Opinioni di un clown di Böll, Giovanni Franzoni il Don Giovanni più ambiguo e fragile, l’impossibile anima trans gender del seduttore, Candida Nieri, che dà brillantemente carne ad una femminilità fragile e sguaiata, in cerca di equilibrio, e Valentina Vacca.
A loro si aggiungono Massimiliano Loizzi, il servo giocoso e logorroico del Don Giovanni giovane, e Maurizio Rippa, che dona la voce alla figura del padre e a tutti gli intermezzi “lirici”, ma anche non di rado comici, con cui Latella rilegge la tradizione operistica del Don Giovanni; a lui è affidata la dimensione del personaggio spettatore, quasi silente convitato di pietra e inconscia sovrapposizione, scopriremo, con la figura paterna. Questo filone di approfondimento, tuttavia, risulta piuttosto esile e non sufficientemente sviluppato, risolvendosi in poche battute nel secondo atto, che non possono esaurire una tematica così complessa, rappresentando certamente un punto debole di quanto portato in scena.
Audace anche la scelta di lasciare in più momenti all’improvvisazione uno spazio importante, soprattutto nelle scene che coinvolgono il pubblico e in generale in quelle in cui il servo di Don Giovanni deve alzare la temperatura ironica del recitato, per portarla verso gli esiti meno convenzionali che la drammaturgia prevede. Sono momenti in cui spesso si va un po’ oltre la misura, trascinando verso un gioco di cui lo spettatore finisce per avere consapevolezza, mentre le parti più rimarchevoli dello spettacolo sono quelle in cui la regia riesce a giocare sull’occulto, sull’invisibile.
A questo proposito, ad esempio, la scena del secondo atto in cui il padrone e il servo si inseguono intorno al drappo imitando il vociare degli animali rimane uno dei punti più interessanti, come pure l’epifania finale, un’epifania di apocalisse barocca dove i personaggi, invecchiati in se stessi e nel loro stanco dire e dirsi, soffiano via la loro anima emergendo da una botola come dagli inferi in cui tutti sono finiti.
Il cuore dello spettacolo è il gioco delle ambiguità di ruolo, l’indagine sul debole, sul passaggio fra uomo e donna, fra maschio e femmina, il limitare biologico, quello psicologico. La regia mette al meglio in scena un testo che però alterna a momenti più interessanti e a momenti di monologo di maggior esito alcuni passaggi concettuali a vuoto.
Sicuramente dire qualcosa di nuovo e soprattutto di interessante su questo personaggio e sull’apparato mitologico legato al topos umano di cui è incarnazione, dirlo con la prosa teatrale, con le difficoltà della scena, non è agevole. Al termine dello spettacolo restiamo con il sapore immediato di un vino frizzante, capace di comunicare, eppure nel lungo tempo, nel sapore persistente, non manca il sentimento di qualcosa che viene meno, che appare più pallido e slegato di quanto sia apparso in un primo momento. Oltre a due tre monologhi, a qualche interessante trovata registica, sentiamo a qualche giorno di distanza dalla fruizione, la mancanza di un reale, profondo punto di approdo drammaturgico sul personaggio, sui personaggi.
Insomma ci troviamo pericolosamente a chiederci il perché di alcuni perché, come se la rappresentazione non si risolvesse in re ipsa, non riuscisse a dirimere un vero e proprio bandolo, un filo da portare a casa, con cui ritornare a quello che si è visto.
Quando l’abbiamo visto ci era piaciuto ed abbiamo battuto le mani convinti. A qualche giorno di distanza, pur nella consapevolezza di una prova di regia capace di grandissime riflessioni sul teatro come luogo dell’anima, del piatto servitoci ricordiamo solo alcuni ingredienti. E ci chiediamo il perché.
Un sentimento stranissimo in ragione del fatto che, ritornando con la memoria a ciò cui si è assistito, vengono in mente alcune sequenze, alcune apparizioni, momenti più lirici, ma non torna in mente in nessun modo ciò che le lega, l’amalgama, il cemento. E se è vero per Latella quello che lui stesso aveva postulato al termine del Lear con Albertazzi, laddove lasciava a metafora della necessità profonda del teatro un testo e le tavole su cui portarlo in scena, vale a dire quel complesso di tecniche che disciplina il mestiere del teatrante sia esso regista o attore, quel che più sentiamo venir meno in questo allestimento è il primo elemento. Peccato, perché in realtà di recitato ce n’è perfino tanto. Ma a volte liquido. Frizzante al momento della bottiglia stappata, ma che poi nella riflessione più profonda evapora, proprio perché viene meno il legante molecolare, che solo la drammaturgia rende stabile o instabile.
Disegno Renzo Francabandera
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