BRUNA MONACO | L’ammirevole progetto ZTL-pro da cinque anni permette a compagnie indipendenti di realizzare spettacoli a volte di gran qualità. È il caso di Lev dei Muta Imago, presentato nel 2008, o de L’origine del mondo di Lucia Calamaro, uscito dalla scorsa edizione e che ha raccolto grandi successi di pubblico e critica. La direzione artistica di questa rassegna è prismatica (Angelo Mai, Rialto Santambrogio, Santasangre / Kollatino Underground, Teatro Furio Camillo e Triangolo Scaleno Teatro) come anche la tipologia di spettacoli selezionati. Il focus è sulla varietà dei linguaggi artistici, ma grande attenzione anche al teatro di ricerca.
Quest’anno gli spettacoli finanziati da Ztl-pro sono tre, molto diversi tra loro, appunto. Il più interessante, Reality, nasce dall’incontro frala brava Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Il punto di partenza è il reportage di Mariusz Szczygiel sulla casalinga polacca Janina Turek, che in seguito alla deportazione del marito a Auschwitz per elaborare il lutto ha sviluppato una psicosi tutta particolare, ovvero un filtro affettivo che, anziché deformare la realtà, la mette a fuoco con una precisione maniacale. Una realtà oggettiva, scevra di emozioni: i fatti, soltanto. Quelli meno significanti, quelli di tutti i giorni. Fatti ridotti a elenco di fatti, ridotto a numeri. È così che scrive 748 quaderni, annotando 38.196 telefonate, 1.922 appuntamenti fissati, 70.042 programmi televisivi visti. Eccetera, eccetera. Per tutta la vita, ad insaputa dei familiari. Di tutti.
L’inizio di Reality è acutissimo, ed esilarante. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini partono dalla fine, dalla morte della protagonista, un infarto, mentre rientrava a casa dopo la spesa. Subito la domanda: come si mette in scena la morte? Traslitterazione scenica della questione atavica (come si elabora la morte?) a cui Janina Turek ha risposto compilando quaderni. Deflorian e Tagliarini osservano l’uno le proposte di morte dell’altra. Si correggono, si aiutano. Hanno pudore. Sono impacciati e umani.
Poi, a dispetto del titolo, Reality inizia a somigliare a una docu-fiction sulle difficili prove di trasposizione scenica di qualcosa che, a stringere, è una serie di liste. Come fare uno spettacolo dalla lista della spesa. Reality diventa così la messa in scena di un tentativo di spettacolo che ha forse la debolezza di alludere a tratti più a uno studio preparatorio (molto interessante) che a uno spettacolo compiuto.
Anche Or, sulla frase nominale, ideato e diretto da Silvia Rampelli per la compagnia Habillé d’eau, è a suo modo uno spettacolo incompiuto. O forse, solo non riuscito. La scena completamente nuda è quella grigia ma per nulla anonima del teatro Palladium, nessun lavoro è stato fatto sullo spazio. Sul fondo scena due gambe d’uomo, distese, il resto del corpo nascosto dalla quinta. Rumori di fondo registrati e poi una voce che chiama “Cristiani” e che sarà il tormentone dello spettacolo. Le performer in scena non faranno che reiterare gesti poco comprensibili. La ricerca dichiarata nel foglio di sala sulla “dialettica tra temporalità e identità della forma” sulla scena è ancora più criptica che sulla carta. Dal bisogno di un senso, lo spettatore può anche liberarsi, se l’elemento visivo è più che attraente, penetrante. Ma né corpi delle due pur brave performer (Alessandra Cristiani e Eleonora Chiocchini), né la qualità dei loro movimenti colpisce in profondità, impossibile che riesca ad affondare da qualche parte nella percezione dello spettatore.
Chiude in leggerezza la rassegna il Teatro delle Apparizioni di Fabrizio Pallara con Moby Dick di Rockwell Kent, uno spettacolo per adulti e bambini. I novanta spettatori invitati a salire sul palcoscenico del Palladium siedono su delle panche disposte in forma ovale. Corde dai nodi scorsoi scendono dal soffitto e si legano a delle balaustre. Siamo su una nave, e non una qualunque: il Pequod, la più famosa baleniera di tutti i tempi. Dario Garofalo (unico, bravo attore in scena) in quaranta minuti ripercorre il monumentale romanzo di Melville. Proiettate sul pavimento della nave, le illustrazioni di Rockwell Kent accompagnano e scandiscano la sua narrazione. Anche in questo caso, si avverte una cerca incompiutezza. Lo spettacolo è ben costruito, ma da risolvere il rapporto con gli spettatori, seduti su panche scomode come quelle di una nave, ma trattati non da mozzi e marinai, bensì da spettatori ordinari, in nessun modo coinvolti nell’azione, malgrado la prossimità. Il progetto è ambizioso, ma l’adattamento scenico di un romanzo, specie di un libro universo come quello di Melville, è sempre un’operazione complessa, e si corre il rischio di rimanere intrappolati nella trama dimenticando i passaggi che dalla trama straboccano e in cui, spesso, si annida il senso.