rosso_lucapiva_19RENZO FRANCABANDERA | Nelle primissime pagine dei più celebri e divulgati manuali su come si costruiscono le drammaturgie, il primo elemento cui si fa cenno è la costruzione di un conflitto. “Red”, Rosso, di John Logan portato in scena per la prima volta in Italia è una drammaturgia costruita attorno al conflitto fra il pittore Mark Rothko, in questo caso disegnato con una personalità egocentrica e misantropa ai limiti dello psicotico, e un giovane apprendista, che in realtà fa esplodere con la sua paziente vicinanza al maestro, i suoi conflitti interiori, frutto del rancore verso una società, quella americana di fine anni 50 e inizio 60, che ancora non ne apprezza appieno il valore artistico, preferendo alle sue tele di natura informale più orientate al cromatismo la forza del gesto di Pollock, che aveva sfidato e trovato la morte nel 1956.

Logan è drammaturgo esperto e che ama ricavare le sue storie in un passato di cui indaga le sfumature ambientali, un’attitudine che gli ha decretato negli anni un successo planetario, il cui più recente ed eclatante caso cinematografico è stato l’Hugo Cabret di Scorsese, regista per cui ha sceneggiato anche The Aviator, ma lo ricordiamo anche con Spielberg, per il quale ha scritto Lincoln con Tony Kushner.
Nel caso di Red l’ambientazione è facile da ricostruire: siamo già nella maturità artistica di Rothko, quella in cui era arrivato ad uno stile riconoscibile, fatto di rettangoli monocromi, spesso adagiati su altre monocromie, su tele di importanti dimensioni. Più precisamente siamo nel 1958, quando Philip Johnson gli commissiona una importante serie di lavori per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York, progetto cui l’artista lavorò per più di un anno, per poi, dopo aver completato l’opera, richiedere che i grandi lavori murali gli fossero ritornati, perché inadatti a convivere con un ambiente così poco attento all’arte stessa.
Nove di quei quadri finirono quasi dieci anni dopo alla Modern Tate di Londra, il cui direttore dell’epoca Norman Reid li commentò entusiasta per “a princely gesture”, anche se la negoziazione con l’artista non fu di poco conto, visto che lo stesso pretese che i quadri fossero esposti in modo permanente in una sala, senza avere vicini altri esempi che fossero per quel tempo più accessibili al grande pubblico per descrivere la sua arte.
Poco tempo dopo, il 25 febbraio del 1970, il pittore fu trovato morto nel suo studio, con le vene dei polsi recise, in un lago di sangue che macchiava di rosso il pavimento che misurava 8 piedi per 6.
Questa scena viene citata da Ferdinando Bruni in maniera brigante nella versione in scena all’Elfo Puccini dell’opera di Logan, che lo vede impegnato in questi giorni insieme ad Alejandro Bruni Ocaña, sotto la direzione di Francesco Frongia.
Siamo nello studio dell’artista, in un processo di iniziazione all’arte che come in molti casi attestati nella letteratura dello spettacolo, diventa un’alimentazione inversa, un soffio di vita dalla parte giovane a quella matura e spesso incancrenita, dura alla vita.
Questa è ad esempio la chiave di lettura che del testo di Logan aveva voluto dare Michael Grandage, che a fine 2009 lo aveva portato ad uno straordinario successo, prima a Londra e l’anno dopo a Broadway, dove a metà 2010 ha ricevuto sei Tony Awards, più di quanti ne abbia mai ricevuti ogni altra messa in scena, fra i quali miglior drammaturgia, miglior regia e miglior attore per Eddie Redmayne, che interpretava il giovane assistente di Alfred Molina. A questo link alcune sequenze di questo allestimento .
L’intonazione cromatica che le luci di Nando Frigerio conferiscono allo studio di Rothko in questa versione di Rosso targata Elfo, richiama per certi versi quella del celebre allestimento londinese/newyorkese. Come pure alcune dinamiche di scena appaiono vicine a quelle pluripremiate, forse anche per evidente necessità di impostare lo spazio in modo semplice, orientato alla fruizione del pubblico.
La grandissima passione di Ferdinando Bruni per l’arte è quindi stata senza dubbio il motore della scelta di lavorare su questo testo, e su un personaggio dal tratto scontroso ma appassionato.
Lo spettacolo ha spunti di interesse, che non sviluppa in toto. L’ “attor giovane” pur preciso nell’interpretazione, non arriva a dare al suo personaggio quella crescita di personalità che fa sviluppare anche la crescita del conflitto con l’artista e la sua psicosi. Questo porta Bruni un po’a “titaneggiare” con il suo personaggio dal fare tiranno, il cui gesto suicida, che viene mimato, non trova una vera corrispondenza in uno stato disperato sufficientemente sviluppato, se non in una progressiva tensione alla dipendenza alcoolica.
E’ paradossalmente tutto troppo misurato, c’è un’ortoepia assoluta, per cui l’istante in cui la passione diventa travolgente è quello in cui i due protagonisti, con fare violento, dipingono in pochi secondi una grande tela di rosso indiano, pronta per essere la base di uno dei celebri quadri di Rothko. Solo qui l’arte prevale su tutto, soprattutto sulla parola, una parola che alla fine dello spettacolo rimane fredda e un po’ distante, senza lasciare quella profonda scalfitura informale nell’animo di chi assiste.

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