RENZO FRANCABANDERA | La ripresa dell’Hamlet di Lenz Rifrazioni è a suo modo un evento. Dopo gli allestimenti alla Rocca dei Rossi di San Secondo (2010) e alla Reggia di Colorno (2011), Lenz ha riproposto la sua rilettura del classico di Shakespeare diretta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nell’ultima settimana di maggio all’interno della stupenda cornice del Teatro Farnese di Parma. Con cadenza annuale, dunque, questo itinerario esperienziale porta gli spettatori all’interno di un percorso-confronto con l’altro da sé e con il sé fragile che con più difficoltà accettiamo. Il cuore di questo lavoro, persino della stesura drammaturgica e della più profonda intimità che l’allestimento emana, è dovuto alla partecipazione, in qualità di attori, di alcuni degli ospiti della Comunità Terapeutico Riabilitativa, per un’esperienza iniziata oltre dieci anni fa in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Parma.
Gli attori “sensibili” sono Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Luigi Moia, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera.
Fin dalla scalinata d’ingresso lo spettatore viene condotto fra video installazioni e momenti recitati attraverso una sorta di amletica via crucis, dove perfino la crocifissione trova esplicita menzione. Il Teatro Farnese, i suoi anfratti, le bellissime sale del palazzo che lo ospita, sono un luogo all’interno del quale il recitato riesce a sospendersi in epifanie dell’irrisolto, dove mai quello cui si assiste chiude o completa alcun concetto, lasciando un sentimento di sospensione onirica, tanto che l’essere o non essere arriva alla fine, quasi a confermare lo stadio intermedio, il dormiveglia dell’anima cui tutto si ispira, quel momento ipnotico capace, a volte, di regalare intuizioni, premonizioni, a farsi deposito di saggezza ancor più assoluta, proprio in quanto non decodificata con il sistema di valori del consesso sociale, ma al bordo del sensibile umano, in quel limitare che a volte si avvicina a ciascuno di noi in forma pericolosamente chiara e leggibile.
Il confronto dialettico fra Amleto e Ofelia, prima del suicidio di quest’ultima, è perfetto da questopunto di vista: i due personaggi non sono più emanazione shakespeariana ma per il tramite dei personaggi portano in scena il loro vissuto, le loro solitudini, con lui che, nel condannarla a una vita senza amore con parole “da matti”, risolve il dialogo in una delle vette comiche dello spettacolo, una comicità che nasce proprio dalla constatazione dello stato di emarginazione in cui chi troppo ama, chi troppo sente, finisce per trovarsi, con una beckettiana e comica rassegnazione. L’Hamlet, proprio perché affidato a sensibilità ulteriori, vive la sua forza nei momenti in cui questo concetto diventa cristallino, distillato, in cui la spontaneità non viene incanalata in una volontà d’ordine troppo sovrastrutturato.
Cerchiamo di snodare questo punto in modo il più dettagliato possibile, perché in questo si risolve il nostro giudizio di merito sull’operazione artistica. Concettualmente la stessa è intrinsecamente legata ad una lettura quasi platonica, che prende solo a pretesto il testo shakespeariano. Supponiamo che l’obiettivo dell’operazione sia proprio quello di indagare forza e fragilità del vivere per il tramite dell’opera teatrale, capace di farsi incarnato nel corpo di una persona con sensibilità psichica più accentuata. Maria Federica Maestri e Francesco Pititto paiono, infatti, voler spingere chi percorre questa simbolica processione, dallo stato di coscienza all’incoscienza del sè, ricorrendo a quella sorta dottrina della reminiscenza di cui Platone parla nel Menone, per arrivare a un interrogativo più dilaniante sul senso del vivere, del morire e del transito di sentimenti che ci attraversa.
L’imperfezione con cui, fin dall’inizio dello spettacolo, siamo costretti a confrontarci, diventa quasi rovesciamento di un ideale estetico e di ragionamento, che è quello del mondo “fuori”, ma in grandissima parte anche di quel mondo all’interno del quale la rappresentazione stessa viene svolta, la Pilotta, appunto. In non poche scene, come quella ai piedi della statua antica, infatti, il tema della reminiscenza dell’assoluto e della sovversione dell’ideale estetico trovano estrinsecazione. Sono i punti in cui l’imagoturgia di Pititto risolve meglio il dilemma di Amleto che cerca l’idea di un sé oltre la pazzia, come possibile condizione di sonno, del sogno. L’assoluto pare qui essere nella coincidenza degli opposti, come quando ai piedi della statua di prassitelica ispirazione, quasi si addormenta uno degli interpreti della casa di ricovero, con il suo fisico imbelle, dilaniato dall’adagiarsi giorno dopo giorno sulle palpebre del peso del farmaco sedante.
E’ quando lo stridore, l’incrocio concettuale, viene più naturale che il percorso iniziatico dello spettatore trova i suoi momenti più alti, quando il chiasmo lega mondo reale e universo del sonno/sogno con ideale estetico e sentimento dell’imperfezione. Quando invece ricerca lo stesso risultato con mezzi più artefatti, come nell’insistito di dialogo con i video da parte degli attori (a volte con l’artificio del fuori sincrono), l’operazione, proprio perché si spinge alla ricerca di una sublimazione estetizzante del termine imperfetto del chiasmo, sbilancia il delicatissimo equilibrio della struttura ad X, dove ogni polo dell’incrocio concettuale deve essere puro, assoluto, incontaminato.
Capita così di avvertire il peso di una certa lunghezza, di una costrizione ad alcuni momenti fruitivi che potevano essere risolti in maniera più sintetica. Invece la sosta, la stasi, la stazione della via crucis, trasformano in alcuni momenti l’Hamlet da operazione di risveglio platonico in ricerca di un liturgico teatrale neo-pitagorico e accessibile a pochi, di cui non sono più incarnazione gli interpreti e la loro imperfetta e al contempo assoluta elementare saggezza, ma i registi, con la loro costruzione sovrastrutturale.
E se è normale che questo in fondo un po’ avvenga in ogni creazione d’arte, è pur vero che, nel meno, questo lavoro potrebbe trovare ancor di più, con qualche accortezza maggiore dal punto di vista tecnico sull’impianto di amplificazione sonora non sempre all’altezza nella regolazione dei volumi e delle distorsioni, e dal punto di vista concettuale attraverso l’eliminazione di barocchismi artistici, laddove il livello base è già capace, ha già la potenza di impatto per risvegliare.
Esemplifichiamo, anche in questo caso, con un episodio estrapolato dallo spettacolo, che è proprio quello della morte di Ofelia. L’evento segue l’irresistibile dialogo cui si faceva menzione prima, dialogo di naturalissima e al contempo antinaturalistica semplicità, giocato al bivio fra vero e falso, sulla condizione del disagiato psichico, talmente capace di amare, da rimanere vittima di questo sentimento così distillato. La scena si svolge sul palco del teatro Farnese. Il pubblico è anch’esso sul palco, spalle alla sala. Poi Ofelia, questa anziana attrice, recitando una sorta di straziante Miserere popolato di incubi e creature bestiali, inizia a percorrere la sua lentissima camminata verso il destino, procedendo a piccoli e incerti passi sulla lunga passerella che dal palco la porta in una platea vuota, sgombera di sedie, fin verso l’uscita di scena, che avviene proprio dalla porta di ingresso in platea. Provate a immaginare questa piccolissima figura, sovrastata dal barocco del teatro, con il pubblico che la segue con lo sguardo allontanarsi, mentre la sua voce amplificata continua a portarci nelle orecchie la paura del buio, dei coccodrilli. Ecco, in questo, già di suo, ricchissimo e potente insieme di simboli, lo spettatore deve distogliere il suo visus dalla vicenda, richiamato da proiezioni che in fondo nulla tolgono e nulla aggiungono a quanto già di suo, fortemente sta avendo luogo.
L’Hamlet può trovare un più fecondo terreno di approfondimento per i prossimi allestimenti, ove, a nostro avviso la regia fosse capace di riequilibrare il chiasma, lasciando all’imperfetto di mostrare la sua immensa potenza nell’incerta camminata, senza costringere a vederla e rivederla ripresa da altri obiettivi e proiettata con dispositivi tecnologici finanche alle nostre spalle. In questo horror vacui risiede una debolezza ancora irrisolta dell’impianto artistico nella sua attuale versione. Di fronte alla potenza dell’imperfetto, che deve introdurci al sogno e innescare il percorso della reminiscenza, per trovare l’assoluto attraverso la perdita di coscienza del sé istituzionale, guidata dal passo malfermo di un essere fragile e spaesato, è ovvio che distogliere in quello stesso momento l’attenzione dal processo di abbandono del nostro inconscio con il ricorso a mezzi sofisticati e tecnologici può finire per essere un’infrazione grave di quell’ideale prassitelico di misura che trovava nel motto «nulla di troppo» (medén ágan) la sua sintesi perfetta.
Disegno Renzo Francabandera