E’ da alcuni anni nell’ambito del festival di Radicondoli, quest’anno sotto la direzione artistica di Massimo Luconi, che viene assegnato il premio giornalistico intitolato alla memoria di Nico Garrone, critico teatrale de La Repubblica scomparso da alcuni anni.

La sua attenzione alle nuove forme d’arte, la sensibilità nella ricerca dei giovani talenti, ne fa anche per le giovani generazioni un modello. Abbiamo intervistato uno dei due giovani vincitori, il critico Roberto Rizzente.
Roberto, quando hai saputo che avevi vinto il premio che lega il suo nome al compianto Nico Garrone, cosa hai pensato?

Ero in pausa pranzo coi colleghi del lavoro che faccio per mantenermi quando è arrivata la telefonata di Marcotti. Non ci potevo credere. Ero felicissimo. Già l’anno scorso ero arrivato in finale. Ho subito telefonato a Claudia Cannella per ringraziarla. E’ stata lei a insegnarmi il mestiere.

Come vincitore di questa edizione, insieme alla giovane e promettente collega Sustersic, cosa pensi di aver fatto, fuor di modestia per arrivare a questo premio? Se dovessi raccontarti in due parole…

Mi sono avvicinato al teatro un po’ per caso, all’Università. Certo, avevo la passione – grazie alle lezioni di Sisto Dalla Palma, soprattutto. Ma è stato il caso a farmi scegliere il teatro, invece del cinema. Ed è stato di nuovo il caso a farmi collaborare prima con Einaudi e poi, come giornalista, con Hystrio. Mai avrei pensato di fare il giornalista. Sono grato al caso, e da allora ho sempre cercato di essere onesto, verso il mio mestiere. Con la rubrica “società teatrale” prima, segnalando le iniziative più meritorie del panorama teatrale contemporaneo. E poi via via con le recensioni, entrando sempre di più nel vivo della questione. Fino alle inchieste, che sono il genere che amo di più, capaci come nessun altro di scavare tra il non detto, lasciando trapelare il “marcio che c’è in Danimarca”. Senza dimenticare, ovviamente, l’attività di operatore. Prima con la curatela delle serate teatrali allo Spazio Tadini a Milano, e poi con l’attività di giurato e fiancheggiatore, fino al Premio Hystrio “Scritture di scena” per la drammaturgia, per il quale spingevo da un po’.

La passione per il teatro e per i viaggi paiono per certi versi lontane, eppure anche nei viaggi la tua passione per il racconto, quasi documentaristica, fa emergere un tuo desiderio di rilasciare testimonianza, segno di presenza.

Mi ritengo fortunato a poter viaggiare. Ho una curiosità viscerale e forsennata che mi porta a scoprire nuove culture, nuovi riti, nuove tradizioni, ai quattro angoli del pianeta. Non tutti hanno questa possibilità, me ne rendo conto. E allora cerco di restituire quello che vedo, quello che sento con i racconti, la fotografia e, in un futuro prossimo, il documentario. Trovo un forte senso etico nel prestare i miei occhi a chi non può essere là. Ho ricevuto molti ringraziamenti per il reportage sull’Uganda e il Rwanda, e questo mi spinge ad andare avanti.

Quali sono secondo te le caratteristiche che deve avere un testimone del proprio tempo e in che modo la critica si fa testimonianza?

Non si può prescindere dalla curiosità. Bisogna essere voraci di tutto. Sempre e comunque. Il teatro è solo una delle manifestazioni del genio umano. Non esistono barriere. Bisogna amare tutto, meravigliarsi di tutto, l’arte, il cinema, la letteratura, la musica, l’architettura. Ma poi bisogna essere onesti. Filtrare quello che si vede. Per il bene dell’opera d’arte, che è un qualcosa di autonomo e indipendente, che sta sopra all’artista, e dal quale tanto l’artista quanto lo spettatore traggono un godimento estetico che è, nella sua misura, etico. Per lo meno come antidoto alla volgarità e la superficialità.

Cosa ti piace del teatro contemporaneo? Un tuo lettore cosa trova nei tuoi pezzi?

Non so se dipenda da un fattore generazionale o meno, ma sento un’istintiva affinità con il teatro cosiddetto sperimentale, la generazione “T”, per dirla con Palazzi. Mi piace la commistione dei linguaggi, l’estetica del frammento. Tutto questo, però, vale per me. O per la video-arte e i cortometraggi che, con la mia associazione, Nu de Dos Arte, realizziamo. Nell’esercizio critico tutto questo passa in secondo piano. Non credo al protagonismo della critica. L’io ipertrofico del critico è un male che ci è stato tramandato e del quale è necessario liberarsi al più presto. Bisogna essere obiettivi e imparziali. Mettendosi al servizio dell’opera, come diceva Dreyer, con un linguaggio il più possibile piano e franco. Evitando le malignità e argomentando, senza falsi giri di parole.
 
Se avessi potuto scegliere di vivere qualche anno prima, o anche in un’altra epoca per vedere gli spettacoli di quel tempo, quando avresti voluto vivere?
Posso dare tre risposte? Nell’antica Grecia, nel periodo elisabettiano e negli anni ’60 e i primi ’70. Sono tre periodi molto diversi tra di loro, ma dove il teatro aveva un ruolo fondante in seno alla comunità. A quei tempi gli artisti parlavano a tutti. Senza, per questo essere banali. Un po’ come è accaduto, di recente, a Volterra, con il bellissimo Mercuzio non deve morire di Punzo.