BRUNA MONACO | Come già scriveva Laura Novelli (http://www.paneacqua.info/2012/07/visioni-di-teatro-a-confronto-sulloggi/), alla 10° edizione di Kilowatt (dal 20 al 29 luglio a Sansepolcro in provincia di Arezzo) la scena contemporanea appare in tutta la sua eterogeneità.
La poesia a teatro: La compagnia Capo Trave, fondata da Luca Ricci e Lucia Franchi, ha presentato in prima nazionale Nel bosco, ispirato a una poesia di Andrea Zanzotto dal titolo Il galateo in bosco. La voce registrata di Roberto Herlitzka, che interpreta le parole di Zanzotto, e le musiche di Antonelli Lanteri fanno da fondo sonoro allo spettacolo. Roberto Gudese e Alessia Pellegrino prestano il proprio corpo ma non la propria voce alla performance: sono giovani e non ancora padroni della scena. Anche la regia, pur apprezzabile in alcune soluzioni visive, è da mettere a punto: i movimenti appaiono a un tempo schematici e poco leggibili. E le parole di Zanzotto, nonostante la maestria di Herlitzka, si giustappongono senza fondersi e senza riuscire davvero ad attirare l’attenzione.
Teatro d’attori: una doppia replica per il numeroso pubblico che vuole assistere a Mea culpa della compagnia Odemà. È la seconda parte di un trittico sul potere e le contraddizioni dell’essere umano iniziato nel 2011 con A tua immagine. Per indagare il potere Enrico Ballardini (interprete, musicista e drammaturgo della compagnia) sceglie di porsi dal punto di vista di chi il potere lo detiene in assoluto: Dio. Il Dio di Abramo e di Isacco. Protagonista indiscusso dello spettacolo, di questo come del precedente, personaggio riuscitissimo interpretato da un’eccellente Giulia D’Imperio. La affiancano Enrico Ballardini e Davide Gorla, rispettivamente Caino e Abele. E non è qui Abele il fratello buono, ma il diabolico compare di Dio: insieme, quei due, hanno spinto Caino all’assassinio solo per convincere gli uomini che, al mondo, esistono un bene e un male facilmente distinguibili e così nascondere, dietro una patina di senso, l’arbitrio senza freni del potere divino. Davvero ambizioso, il progetto di Odemà, e non privo di qualità. Anche se, forse, questo spettacolo risulta meno armonioso e profondo del capitolo precedente della trilogia.
Teatro di figura: una colonna di libri su un tavolo, tre donne sedute intorno, il suono del tempo scandito da un metronomo. Su un tappeto di sonorità contemporanee, una voce off racconta la vicenda biblica di Abramo e Isacco con le parole quattrocentesche di Feo Belcari. Sul palcoscenico, le tre donne in nero raccontano la stessa storia con i pop-up books creati da Giulia Gallo. Niente più che forme di carta che compaiono una dopo l’altra, come fotogrammi naufragati nel buio del palcoscenico, sogni sfuggiti alla mente di Dio, che la fa davvero da padrone a Kilowatt. Abram e Isaac (della compagnia I sacchi di sabbia) è uno spettacolo breve, fresco e ironico, in cui la levità è la cifra stilistica e al contempo il limite: poco o nulla la compagnia si sofferma sul senso di questo evento che, compreso nelle poche righe del racconto biblico, ha generato esegesi più numerose dei granelli di sabbia del deserto.
Maschere: i protagonisti di Onirica arsenic dreams sono un uomo e una donna (Matteo Fantoni – anche ideatore dello spettacolo – e Sara Venuti) dai corpi umani e le teste di plastica (anche le maschere sono state costruite da Matteo Fantoni e Sara Venuti). Senza parole, lo spettacolo racconta le solitudini e i sogni di due vecchi, la passione amorosa che non regge l’urto della vita, e allora non resta che la nostalgia, ripensare al lui o alla lei di tanti anni prima, quando non si era che ragazzi, e amarsi era bello come è bello il volto dei ragazzi. Sulla scena, il presente e il passato sfumano l’uno nell’altro in una confusione di piani narrativi in cui anche la realtà e l’immaginazione si confondono. Il fantasma di lei giovane riappare (è Carina Pousaz), il lui vecchio se ne innamora subito, vorrebbe sbarazzarsi della lei vecchia per tenersi stretto al suo petto di vecchio la giovane amante. Ma il trucco non riesce: uccisa la sua vecchia moglie, muore anche la sua immagine giovanile, perché nessun passato è pensabile senza presente. La vecchiaia dei protagonisti è ben rappresentata dalle maschere dall’espressione stanca e dalla lentezza dei movimenti, esasperata, che vela però di pesantezza tutto lo spettacolo, e lo rende a tratti prevedibile.