FRANCESCO MEDICI | A partire dalla primavera del 1915, tutti gli armeni che risiedevano nelle province orientali della Turchia furono espropriati di ogni bene e costretti a trasferirsi in presunti campi speciali appositamente costruiti per loro. In realtà, una volta prelevati dalle loro abitazioni, gli uomini vennero separati con la forza dalle loro famiglie e trucidati, mentre le donne e i bambini dovettero affrontare lunghissime “marce della morte” attraverso le montagne e l’infuocato deserto siriano. Arresti, deportazioni e massacri furono eseguiti dai Giovani Turchi (sotto la supervisione di ufficiali provenienti dalla Germania, fedele alleata dell’Impero ottomano), principali colpevoli di quello che, secondo la storiografia odierna, è da ritenersi, con oltre un milione e mezzo di vittime, il primo genocidio del XX secolo.
Prima che vengano emessi gli ordini di deportazione contro gli armeni, i Boghosian vivono in una casa di proprietà ad Adapazari, città della Turchia nord-occidentale. Il capofamiglia, un bottegaio rimasto vedovo, si prende cura delle due figlie, Aghavni e Shakeh, rispettivamente di otto e sei anni, coadiuvato dalla nonna delle bambine, che abita con loro. La quiete della loro routine familiare viene bruscamente interrotta in un’«alba di sangue», quando, «dalla sera alla mattina, tutti gli abitanti del quartiere, grandi e piccoli, si prepararono alla partenza». È questo l’inizio della tragedia, per i Boghosian e per i loro compagni di sventura, che, ridotti a «mendicanti», scortati e vessati dagli spietati gendarmi turchi (molti dei quali erano ex galeotti, delinquenti comuni e stupratori), vengono radunati in convogli e obbligati a compiere a piedi un viaggio sfibrante verso Deir ez-Zor (attuale Siria nord-orientale), «la fossa comune degli armeni». Alla fatica si aggiungono gli assalti dei banditi lungo la strada, i lavori forzati, le reiterate violenze su donne e bambine, le esecuzioni sommarie. Ogni tentativo di fuga si rivela vano e in tanti, tra indicibili sofferenze, si lasciano morire durante il cammino.
Dopo aver seppellito con le proprie mani l’amatissima nonna e aver dovuto abbandonare il corpo esanime del padre in strada, le due sorelline sono ormai sole, ma non perdono il coraggio. Tuttavia, quando giungono nella città siriana di al-Bab, presso Aleppo, Shakeh scompare, rapita da alcune zingare. La stessa sorte tocca ad Aghavni che, dopo essere stata marchiata sul viso («portavo in fronte quel tatuaggio che incideva nel mio volto il segno dell’infelicità e della spoliazione di un intero popolo»), viene venduta a un ricco arabo di Aleppo, Hamid Bey, i cui familiari la tengono al sicuro nella loro casa fino al 1918. La giovane cristiana resterà sempre grata ai suoi ospiti musulmani: «È vero che parlavano una lingua diversa dalla mia, ma mi avevano trattato come una figlia. La differenza tra il popolo arabo e il popolo turco era notevole. La famiglia di Hamid Bey apparteneva ad un popolo nobile a cui il [nostro] popolo tributerà ogni onore negli anni venturi».
Aghavni, ormai dodicenne, viene iscritta alla Scuola Secondaria di Istanbul, dove nasce la sua passione per la medicina, ma le disgrazie per la sua gente non sono ancora finite. Sotto il governo di Kemal Atatürk, fondatore e primo presidente della Repubblica Turca (1923-1938), «a causa della guerra tra greci e turchi, noi armeni fummo immolati come nuovi martiri […] vittime di una nuova carneficina». Aghavni, che aveva studiato per tre anni presso il Dipartimento di Infermieristica dell’Istituto Americano di Arnavutköy, a seguito dei decreti governativi che ordinano la chiusura del Dipartimento, deve proseguire il corso di specializzazione in medicina nell’ex ospedale tedesco di Saraysilva, sempre a Istanbul, dove lavora fino al 1929. Viene poi chiamata a rivestire incarichi prestigiosi presso diversi ospedali della Siria e del Libano, fino alla nomina, nel 1944, di direttrice della Facoltà di Infermieristica dell’Università di Damasco (per due mesi è perfino designata come infermiera personale dell’allora presidente siriano Shukri al-Quwatli). Ed è proprio una sua studentessa, Layla, a riconoscerla, grazie a un istintivo «richiamo del sangue», come sua zia e a condurla ad Aleppo, dove Aghavni può riabbracciare la sorella Shakeh, ormai felicemente sposata con un arabo musulmano e madre di sette figli.
Quando, nel maggio 1945, a Damasco, scoppia l’insurrezione contro il mandato francese, ad Aghavni è affidato il compito di allestire l’ospedale per le emergenze e il suo operato viene elogiato dal presidente al-Quwatli, alla presenza di tutti i ministri: «Ecco una figlia del popolo armeno che ha rischiato la vita tra le esplosioni per venire a salvare la vita a quattrocento uomini» (i pazienti ricoverati erano rimasti infatti senza cibo né medicine). Ma per la donna si tratta di un debito di gratitudine: «In Siria […] abbiamo trovato una terra e una Patria, e abbiamo convissuto con il popolo arabo al quale siamo sempre riconoscenti per averci permesso il riscatto di una vita nuova».
Eppure, come noto, la Turchia si rifiuta tuttora di attribuire a quei massacri lo status di genocidio (la sua posizione negazionista resta una delle principali cause di tensione tra l’Unione Europea e il governo di Ankara). Quello degli Armeni è stato perciò definito da alcuni studiosi un “lutto incompleto”, non potendo i primi porre fine al proprio cordoglio finché la tragedia e le ferite subite non saranno riconosciute dai discendenti delle persone che ne sono state artefici. E ciò pare trovare conferma nelle parole della Boghosian: «Al popolo che ha perso l’onore conviene non vivere. Una simile sofferenza e tale offesa non potranno lasciare in pace il nostro animo se non dopo che si sarà compiuta giustizia piena».
“Il richiamo del sangue” – pubblicato per la prima volta nel 1998 dalla Casa Editrice Cilicia di Aleppo, nella versione originale araba dal titolo “Nida’ ad-Damm” – esce ora in Italia in un’edizione curata da Kegham Jamil Boloyan (Aleppo, 1960), arabista armeno naturalizzato siriano, attualmente docente di Lingua e Traduzione Araba presso l’Università degli Studi del Salento (Lecce). L’agile volumetto inaugura una nuova collana dell’editore barese F.A.L. Vision, “I volti e le tracce”, diretta dallo stesso Boloyan, che ospiterà opere utili a promuovere la conoscenza del Vicino Oriente nei suoi molteplici aspetti: storia, società, lingua, letteratura, arte, fede e tradizioni.
E c’è da augurarsi che una così encomiabile operazione culturale, intrapresa in tempi così bui, possa realmente servire a capovolgere i tanti luoghi comuni e le mistificazioni e a favorire un dialogo costruttivo tra Occidente e Oriente, se è vero che, come recita il passo biblico scelto come epigrafe a fronte del libro, «il giusto sarà sempre ricordato» (Sal 112,6).
Il richiamo del sangue. Ricordi… dal Genocidio armeno 1915, introduzione e cura di Kegham J. Boloyan, traduzione dall’arabo di Sabrina Coletta e Kegham J. Boloyan, revisione del testo italiano di Francesca Piccoli, F.A.L. Vision Editore, Bari 2012, pp. 96, € 10,00.