Tanti lavori, ospitati in rapida successione da tanti teatri diversi… andiamo a vedere.
Lo spettacolo è interpretato da John-Alexander Petricich, Chiara Zerlini, Lorenza Pisano, Andrea Fazzari e Jacopo Zerbo e si è avvalso della consulenza storico/letteraria Andrea Bisicchia.
Il pubblico entra in sala e trova le luci già accese in scena, con una delle protagoniste intenta a dipingere un quadro. La scena è semplice, creata con due quinte che convergono a cono verso il fondo della sala, creando quindi un senso di claustrofobia, esaltato dalla presenza alle pareti di ritratti dipinti (per la gran parte con intonazione espressionista e fauve) e d’espressione inquietante.
Dopo un buio sfumato iniziale, un gioco di luci porta l’attenzione degli spettatori proprio su questi quadri, che emergono uno a uno dal buio con i puntatori. Di qui in poi la storia, incentrata sul dramma del Capitano (John-Alexander Petricich), un uomo di scienza equilibrato e scrupoloso, quasi refrattario ai sentimenti estremi, che finirà invece per cedere al sospetto, alla gelosia e alla paura, alimentate in lui dalla moglie Laura (Chiara Zerlini), donna energica, che ingaggia una lotta con il marito per l’educazione della figlia Bertha, che non comparirà mai in scena, lasciando all’universo infantile degli adulti di narrarsi attraverso il potenziale negativo e incomunicabile. A rendere più inquietante la composizione umana di contorno, una badante dal tratto stregonesco (Lorenza Pisano), il fratello della moglie (Jacopo Zerbo) e un medico che diventerà confidente di lei (Andrea Fazzari), alimentando le gelosie del marito.
Il braccio di ferro fra i due, infatti, degenererà e porterà il Capitano in un mondo parallelo di allucinazioni spettrali che lo alieneranno dalla realtà. Una citazione, nel delirio, delle parole di Shylock che rimanda al Mercante di Venezia, è ideale ponte fra le due messe in scena cui il regista si dedica in questi giorni.
E’ anche ponte naturale con il legame che era stato portato in scena proprio all’Out off di recente e ugualmente incentrato sui rapporti coniugali.
Oltre alle quinte nere convergenti verso il fondo del palco, sulla sinistra un tavolo dove sono poggiati quattro vasetti dei colori primari, sulla destra, progressivamente verso il fondo, un piccolo scrittoio in primo piano con a fianco dei libri (dove il capitano passa i suoi momenti di concentrazione e creatività letteraria), una scaletta che allude ad un ulteriore spazio, che è presumibilmente quello della stanza da letto del Capitano stesso, e verso il fondo un cavalletto con una tela cui, con esito incerto, si adopera Laura.
Abbiamo assistito all’anteprima di lunedì 26. L’intonazione che ben presto lo spettatore non fatica a respirare è quella dello sceneggiato tv anni Sessanta, con musiche ottocentesche per la colonna sonora che aiutano a rendere inquietante il giusto l’ambiente. In teoria ci sarebbero tutti gli elementi per letture multiple, audaci del testo, eppure, un po’ per limiti di alcuni degli interpreti un po’ per una serie di scelte che la regia opera (o forse sarebbe il caso di dire non opera) il lavoro, a nostro avviso, presto scade.
Perché? Perché il testo viene urlato, gli interpreti paiono spesso fuori tempo, fuori luogo, con un pensiero non auto centrato. In diversi recitano lunghi monologhi con i palmi rivolti verso l’attore cui rivolgono la parola in modo onestamente deludente, senza cercare né con la voce né con il corpo di dare struttura all’interpretazione, in questo forse non adeguatamente stimolati dalla regia, che anche ove si sia dedicata a qualche correttivo, evidentemente non ha raggiunto l’esito sperato.
Il lavoro sul testo risulta poco profondo, e la didascalia serpeggia nell’allestimento continuamente, come quando nel finale, dove si parla della protagonista che viene invitata a guardarsi allo specchio, di colpo una tela si rovescia e il retro è fatto di superficie specchiante. La badante, ironicamente tacciata di capacità divinatorie, diventa strega per davvero.
Ci siamo chiesti se l’ironia, presente nel testo dall’inizio fino alle battute finali (clamorosa quella delle mani che la moglie chiede al marito ormai cinto con una camicia di forza di porgerle), sia stata letta in modo proprio. Avrebbe potuto essere una lettura dissacrante e molto più ricca, estrema, di questo testo. Invece viene lasciata lì, tanto che proprio la scena finale cui si è fatta menzione viene caricata dagli interpreti di un pathos solenne, mentre il pubblico scoppia ovviamente in una fragorosa risata per l’assurda richiesta.
Delle tracce vocali audio accenniamo -sono le voci che il padre sente nella pazzia, con sequenze illuminate da un’originalissima luce rossastra – giusto per testimoniarne la scarsissima qualità, che le rendono del tutto incomprensibili, dunque inutili.
Gli interpreti non dialogano in modo credibile né fra loro né con i propri personaggi (ci prova in modo più convinto solo John-Alexander Petricich non cedendo agli eccessi, almeno per due terzi della messa in scena; ma anche lui nel finale butta gli occhi fuori dalle orbite), mentre la regia preferisce tonalità estreme (come i bui hitchcockiani mentre questo o quel personaggio brandisce ora un coltello ora un pennello in tono di minaccia) che sfociano però nella più assoluta e deludente normalità. Perché se queste trovate kitch sono volute, in realtà non raggiungono l’esito di esaltare la tragicommedia, e quindi sono come una barzelletta che non fa ridere, se invece non sono volute sono appunto solo kitch ( e il contrasto, ove la lettura fosse moderna e più audace, sarebbe anche, ad esempio, con i costumi d’epoca); l’esito, quindi, per quello che ci riguarda, è un lavoro senza ritmo, noioso e per larghi tratti perfino brutto. Speriamo ci sia tempo, fra i tanti spettacoli contemporaneamente in scena, per apportare i necessari correttivi.