RENZO FRANCABANDERA | Da molti anni Lenz Rifrazioni è una delle realtà più orientate alla commistione nell’area emiliana che ha come baricentro Parma. Festival, rassegne, progetti sull’identità, l’integrazione, “l’innesto”.
Dopo i primi giorni dall’inizio dell’edizione 2012 del festival Natura dei Teatri, una rassegna ibrida sulla scena, con artisti di tutta Europa, abbiamo intervistato Maria Federica Maestri, della direzione artistica di Natura Dèi Teatri e Lenz Rifrazioni.
Un progetto triennale, il vostro (2012_2014) indica in OVULO, GLORIOSO e I DUE PIANI, per un’indagine approfondita sui linguaggi della creazione contemporanea. Ci vuole audacia a guardare così lontano di questi tempi… Le date della diciassettesima edizione della rassegna sono quelle comprese fra l’1 e il 9 dicembre 2012 con un campo d’indagine che si orienterà sulla lettura performativa dell’identità ovulare- macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete nello specifico con questo concetto?
OvulO è un nome triadico liberamente tratto da “ingestioni” provenienti dal filosofo la cui scrittura ha una forte assonanza con la nostra modalità di creazione: Gilles Deleuze. A Deleuze abbiamo sottratto tre elementi stimolanti, tre suggestioni concettuali. Non è quindi meccanicamente diretta la ragione per la quale il Festival è interpretato da artiste femminili. In primo piano c’è la necessità di dare evidenza ad un linguaggio ovulare, cioè sostanziare un progetto artistico attraverso opere “nutritive”, compositivamente definite.
Se il “Glorioso” si contrappone al linguaggio organico del corpo concreto, ne “I due piani” si incontreranno, senza contaminarsi e subordinarsi, due piani linguistici schizofrenicamente tesi verso l’unità.
Il discorso attorno all’ovulo è maturato nel tempo, allo stesso modo in cui maturano i significati che comportano la necessità dell’azione. Più che un festival “al femminile” preferirei dire un festival di artiste, perché chi come noi pratica da lungo tempo un’indagine estetica profonda, non tollera più mediazioni e medietà e spinge sempre più fino in fondo il proprio acceleratore interiore, emotivo ed intellettuale. Non ci interessa restituire uno specchio più o meno fedele dei linguaggi performativi contemporanei ma, come dice Deleuze, usare il coltello, ossia penetrare con lama tagliente il mondo. Non è una visione ideologica e politica quella di scegliere un universo artistico femminile ma una volontà di sbilanciamento, di estremizzazione della differenza. Oggi, a distanza di un anno dal suo concepimento, questo contenuto si è fatto molto forte anche dal punto di vista della “questione sociale” peraltro andando quasi a coincidere con la giornata contro la violenza sulle donne. Penso non sia sufficiente agire sul piano politico della legislazione, ma che l’umano debba esaltare la propria debolezza attraverso il potere della lingua. Il linguaggio è potere e deve esserlo per i disabili, per le donne, per i bambini, per tutti coloro a cui è stato negato: non è sufficiente averlo per diritto – certo – ma bisogna conquistare il dovere della lingua. Fare un’esperienza intellettuale significa inanellare queste due polarità. Il nostro lavoro, sia nella progettazione del festival come nel nostro percorso artistico, è un procedere per innesti; le drammaturgie anticipano una visione in una sorta di futuro circolare in cui quello che accadrà è già accaduto. La visione rende necessaria l’azione.
Le condizioni esterne oggi sono molto difficili: tutto impedisce di proseguire un percorso come questo fatto di avvenimenti interiori e non di eventi. E quindi, sì, è audace il pensare in un esistere lungo. Magari poi lo si pensa, basta però che non ci tolgano almeno la possibilità di farlo.
Le ispirazioni tematiche che dichiarate, derivano da suggestioni filosofiche tratte dall’opera di Gilles Deleuze. Perché Deleuze? Quale contributo specifico ritenete abbia dato alla semiotica con riguardo alle arti sceniche, che ve lo fa preferire ad altri studiosi ugualmente attenti a quanto oggetto della vostra indagine (mi vengono in mente sia Deridda che, ancor più Merleau-Ponty)?
Il teatro filosofico è fisica di pensiero, visualizzazione dell’anomalia e della variazione. La scrittura di Deleuze è disorientante, labirintica, in una rotazione, spirale di sensi. Le prime letture formano e fondano la nostra identità poetica, segnano il passaggio dall’adolescenza alla maturità, diventando così parte della nostra biografia.
Il Festival Natura Dèi Teatri si svolge a Parma negli spazi post-industriali di Lenz Teatro. Ritenete importante questa caratteristica per così dire site specific?
E’ stato importante alla fine degli anni ’80 quando abbiamo cercato uno spazio che corrispondesse alla nostra identità, al nostro concetto di bellezza. Questo è il nostro museo, la nostra pinacoteca, la nostra Wunderkammer in cui si continua a riscrivere la lingua del teatro, è un vuoto e un pieno, è silenzio e rumore. La fabbrica è un luogo non anonimo, non neutro: il ‘900 ha costruito fabbriche al posto delle chiese e le fabbriche dismesse sono le nuove cattedrali del ventunesimo secolo. Dopo oltre 20 anni di attività, visto che le cose non sono mai definitive, il nostro spazio è ancora in balia di possibili mutamenti negativi, cambiamento di destinazione ad uso commerciale. E questa possibilità – drammatica – rafforza ancora di più la sua funzione di conflittuale, e la sua occupazione psico-interiore è ulteriormente mutata. Lo fabbrica è un luogo non rassicurante, non domestico, ma la sua cifra architettonica è quella stilisticamente più in sintonia con il nostro linguaggio scenico, per dimensioni, volumi, per il rapporto sospeso che si ha con lo spettatore. In questa edizione del Festival il pubblico è a metà, non ha un suo posto predefinito, abita l’intercapedine, sta poeticamente in mezzo, nel cuore dell’impulso.
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