MARIA PIA MONTEDURO | Come ben evidenziato dal recente Nobel per la Pace, l’Europa non conosce guerra da oltre sessant’anni. Per fortuna. Ma intere generazioni precedentemente hanno vissuto, o meglio convissuto, con la guerra. L’Italia poi ha provato sulla sua pelle una tra le più laceranti esperienze della storia: la guerra civile. Con questa premessa si comprende appieno il messaggio che “L’armadio di famiglia” della Compagnia Teatri d’Imbarco di Firenze presenta al pubblico. Il testo di Nicola Zavagli (che cura anche la regia) racconta le vicende drammatiche inizialmente, poi tragiche, di una famiglia fiorentina (la madre Clara, il figlio Mario e la figlia Valeria) del popolare quartiere di San Frediano (che fa da sfondo a uno dei più noti romanzi neorealisti “Le ragazze di San Frediano” appunto di Vasco Pratolini); questa famiglia si trova, suo malgrado, coinvolta con la fuga di un fratello e una sorella ebrei. Firenze è bombardata continuamente dall’aviazione inglese e inoltre è occupata dai nazifascisti che imperversano e catturano chiunque anche solo lontanamente sia sospettato di antifascismo o di essere collaboratore di partigiani e/o protettore di ebrei.
La famiglia Salvini accoglie, inizialmente solo per una notte, la giovane Sandra colta dalle doglie del parto, assieme al fratello Claudio, perché la capofamiglia è una bravissima levatrice. In realtà un amico di famiglia (il napoletano Gaetano) ha condotto lì la giovane perché ebrea, confidando nel buon cuore della donna, che pur se non si interessa di politica, non è certo una fanatica del Duce. Da qui si sviluppa la vicenda, che vede alla fine la levatrice commuoversi alle vicende dei due ragazzi ebrei, tanto da nasconderli in un sottotetto, mimetizzato dietro l’armadio di famiglia.
Ma Firenze è piena di spie e delatori: lo stesso figlio Mario spiffera al quartier generale dei tedeschi che in casa sua c’è una giovane ebrea. Troppo tardi, quando Claudia verrà arrestata e deportata ad Auschwitz, Mario comprenderà l’orrore della sua vigliaccheria, ma assolutamente troppo tardi. Su questa triste e nel contempo squallida vicenda si erge la figura di Clara (una potente e suggestiva Beatrice Visibelli), donna semplice, istintiva, ricca di una cultura e di una saggezza popolare (commuovente la scena in cui fa partorire la giovane recitandole il XXVI canto dell’Inferno, il Canto di Ulisse); non è un’eroina tradizionale: ha paura, è indecisa, trema per i suoi figli, ma ama tutti i figli del mondo e trova intollerabile, perché disumana, la discriminazione razziale. Donna che dà la vita per mestiere (meglio per missione), applica la sua maieutica anche nel quotidiano, pur se non si rende conto che il figlio è capace di nefandezze.
Lo spettacolo è organizzato in quadri, scanditi dalla musica composta e interpretata dal vivo, con accompagnamento di chitarra, da Chiara Riondino. E questa musica orecchiabile e popolare acuisce e amplifica il senso della quotidianità che permea tutta la messinscena, condita dal sapiente uso del vernacolo fiorentino, cui fa da contraltare il chiacchiericcio del dialetto partenopeo di Gaetano, anche egli barbaramente torturato e ucciso dopo la delazione di Mario, cui la madre assiste impotente. Il testo sottolinea come ad ogni persona è chiesto di contribuire alla presa di posizione contro le dittature, a ogni persona è richiesto di non voltare lo sguardo da un’altra parte, a ogni persona è chiesto di dare il proprio contributo all’affermazione della libertà.
Può sembrare oggi retorico e quasi demodé parlare di antifascismo, invece questo spettacolo è uno stimolante esempio di teatro civile e d’impegno, sempre attuale. Bertold Brecht, nel commentare la caduta del nazismo, saggiamente ricordava che: “La bestia è morta, ma il ventre che l’ha partorita è ancora gravido”.
Qui alcune immagini dello spettacolo disponibili in rete
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