Celestini_OCCHIELLOANDREA CIOMMIENTO | C’è qualcosa di prevedibile nei racconti di Ascanio Celestini: con molta frequenza lo spettatore interessato ai suoi lavori attende parole investite d’incastri labirintici e ideologici tra porte di sinistra e di destra, storie che narrano il passato e il presente sotto le voci del popolo borgataro o del “me ne frego” nostalgico e gerarchizzato. Soggiace una permanente azione di rimescolamento delle carte che ormai tutti sappiamo essere le medesime e il rischio di questo gioco vive nella possibilità di ricevere al banco il due di picche anche se le carte riveleranno quasi certamente un re di cuori o un asso di fiori. Ascoltare Celestini è un po’ questo: sapere che le carte narrate saranno sempre rosse e nere ma di semi differenti alla partita precedente perché rimescolate ogni volta con deferente meticolosità. Allora ci interessa comprendere come alzare il mazzo e maneggiare ogni singola carta per scoprire i meccanismi che lo rendono un narratore affermato e degno di stima. Lo incontriamo in una piccola roccaforte del contemporaneo chiamata Lari (vicino Pisa) in occasione della chiusura di “Collinarea 2012 – Genius Loci”, un vivace festival estivo che avremo modo di raccontarvi nei prossimi focus teatrali sulle nostre pagine web.

Qualsiasi domanda prettamente teatrale sarebbe impropria come inizio di chiacchierata. Il tuo modo di far teatro non parla solo a se stesso ma si mette in relazione allo studio della tradizione popolare e dell’oralità… 

Diciamo di sì, ho iniziato a fare teatro perché studiavo antropologia e dopo un paio di anni che facevo ricerca -sostanzialmente registrando storie di persone- un mio amico mi ha detto “andiamo a fare un corso di teatro”, un corso semplice, amatoriale, di pochi giorni a settimana. Era più un gioco ma mi è sembrato che nel teatro ci fosse una possibilità. L’antropologo lavora sulle fonti orali, sulle storie, ma quando le raccoglie muoiono subito. Per capire com’è fatto il corpo umano bisogna aprirlo ma quando lo apri l’organismo muore. Portare quei racconti sul palco era una maniera per dare vita a quelle fonti orali che se finiscono trascritte in un libro o in un archivio diventano solo materiale per studiosi o per studenti, fonti molto lontane dalla loro vitalità orale.

I tuoi monologhi non sono solo la raccolta d’interviste o la narrazione tematica su ciò che desideri approfondire: dalla condizione dei giovani precari alle storie sugli ospedali psichiatrici. Sembra quasi tu voglia catturare altro attraverso gli sguardi che incroci e gli incontri che fai… 

Questo tipo di teatro riproduce in piccolo quella che è la dimensione dell’oralità concreta, cioè quella che conosciamo concretamente anche in pizzeria. Andiamo in vacanze in sei o sette persone, poi ci incontriamo con gli amici che non sono venuti con noi e raccontiamo la nostra vacanza. Non stiamo parlando del racconto sulla seconda guerra mondiale, sulla diga del Vajont, su un romanzo dell’Ottocento, raccontiamo proprio la storia della vacanza. Si fa così tanto per finire di mangiare una pizza: normalmente c’è quello che racconta di più degli altri, c’è quello che non parla mai anche se anche lui potrebbe raccontare quella storia perché pure lui è stato in vacanza, c’è quello che racconta ma non è stato presente in una delle sere perché è andato a dormir presto, c’è qualcuno che ascolta ed è stato in vacanza in quel posto. Questa è la dimensione dell’oralità. Il racconto raramente è fatto da una persona a tutti gli altri, c’è magari un narratore che è il leader ma tutti partecipano alla narrazione. Se poi andiamo nella dimensione dell’oralità stratificata dove in famiglia mio padre racconta la stessa storia per la novantesima volta, tutti sappiamo quella storia e tutti rientriamo in quel gioco.

Questo come viene trasposto in teatro? 

Questa oralità concreta si riproduce nel teatro in maniera molto più semplificata. Questa modalità credo sia nata per tanti motivi: mancanza di soldi, di produzioni e per motivi politici perché qualcuno ha pensato “ci siamo rotti di fare Goldoni e Shakespeare”. Sì, Shakespeare è nostro contemporaneo ma manco tanto perché non ci puoi andare a mangiare una pizza. Nasce anche per la delusione politica degli anni Settanta e Ottanta ma soprattutto perché si è cercato di accorciare quel filo che parte dall’attore e va verso lo spettatore, per semplificare quel rapporto, quel tipo di comunicazione.

Il tuo nuovo monologo si chiama “Discorsi alla nazione – Studio per uno spettacolo presidenziale”, parli di sudditi, tirannia e consenso… 

M’interessa come le cose vengano modificate dal linguaggio, non è più la parola che cerca di dire la cosa ma è la parola che, modificandosi, modifica anche le cose. Nel linguaggio giornalistico e politico accade sempre più spesso, la politica sarà sempre più assorbita dalla comunicazione che è diventata spettacolo e quindi va in scena. È rappresentazione, poco rappresentanza. Un po’ perché un linguaggio violento paga molto di più di un linguaggio che non usa la violenza. Il linguaggio violento va molto al di sopra del rumore a cui ci siamo abituati. Linguisticamente è molto interessante, quanto le parole stanno cambiando le cose. I partiti sono vere e proprie aziende, sono marchi, serve l’aggiornamento da packaging, da prodotti e da nuovi slogan, prima la pubblicità era molto vicina alla propaganda. Oggi non c’è più la propaganda ma soltanto la seduzione, se analizzi i contenuti nell’arco di sei-sette mesi vedi che tutti dicono il contrario delle cose dette una settimana prima. È molto più importante la penetrazione dell’istante piuttosto che la comunicazione della visione del mondo.

In questa evoluzione “spettacolare” della politica il teatro come sta vivendo la sua identità precaria? 

Il teatro vive una situazione drammatica da sempre. Esistono grandi teatri che prendono tanti soldi (ora un po’ di meno ma comunque tanti), producono spettacoli e se li vendono tra di loro, se li scambiano, spettacoli mediamente orrendi, inguardabili. Questo teatro è un mostro voracissimo che si mangia tutto, buona parte funziona così. Tutto il resto del teatro, quello vitale, quello che gira all’estero, vive nonostante i ministeri, le sovvenzioni e questi meccanismi. Il teatro sta un po’ peggio perché tutto il paese sta un po’ peggio. Servirebbe staccare la spina e rigenerare iniziando da quelle piccole compagnie che funzionano.

Da oltre un anno l’occupazione del Teatro Valle di Roma rappresenta una resistenza al declino culturale italiano e la proposta di una nuova partecipazione dal basso nella politica culturale… 

La vicenda del Teatro Valle è un fatto importante nella politica di questi ultimi anni, sicuramente un dato rilevante per visibilità, partecipazione e modalità però fa parte di tutto un insieme di luoghi e di tempi nei quali si è preso coscienza che fare politica non significa stare nei sindacati o nei partiti ma nei territori. Non si fa più reale politica a livello nazionale o europeo. Quella è gestione del potere, del privilegio, del denaro che ha portato per questo allo scollamento dei territori.

Ci fai un esempio? 

La Val di Susa è l’esempio di questi ultimi anni, l’idea che se io ho un problema devo affrontarlo per primo insieme ai miei vicini di casa, agli amici, al collega perchè non lo farà nessuno al posto mio, il mio partito sarà impegnato a gestire il proprio marchio. L’occupazione teatrale deve essere letta all’interno di una rete di occupazioni, del Cinema Palazzo, del Teatro del Lido, del Rialto Sant’Ambrogio, dell’Angelo mai. Son tutte realtà che oscillano tra occupazione, lavoro politico sul territorio e impossibilità a livello economico. Detto questo, sempre di più dovremmo andare verso un modello di radicamento territoriale: questa è l’unica cosa che manca al Valle. Ha una visibilità molto più grossa rispetto a tutti gli altri, ma che ci sia un radicamento territoriale a Piazza del Teatro Valle al centro di Roma, questo è difficile. È un territorio veramente ostico, molto più ostico del Teatro del Lido di Ostia.

2 COMMENTS

  1. Gentilissima, grazie di aver scelto di dedicarci qualche attenzione.
    Questo magazine nasce da una redazione che per cinque anni ha lavorato sull’arte e cultura in Italia e in Europa, e che in pochi giorni ha dovuto mettere in piedi una struttura che permettesse all’archivio di notizie e al gruppo di lavoro di molti anni di continuare ad esistere. Per la prima homepage, quindi, abbiamo dovuto scegliere un mix di contenuti nuovi e vecchi, che desse il senso della realtà, ovvero di un progetto che in questi giorni è in transito.
    D’altronde un contenuto non è vecchio se è di qualche tempo indietro, ma è vecchio quando non ha nulla da comunicare.
    Ritenendo questa intervista, come altri pezzi del nostro importante e vivido archivio, un contributo capace di raccontare, esprimere, vivere e far vivere delle riflessioni, abbiamo ritenuto di riproporla ai nostri nuovi/vecchi lettori. Ci sembrava un modo per dire siamo ancora qui. Nonostante tutto.
    Pronti a ricominciare.
    Spero la avremo ancora fra i nostri fruitori, e siamo sicuri troverà via via cose più remote e cose più recenti.
    Ma speriamo vecchie mai.
    Cordialmente
    Renzo Francabandera

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