RENZO FRANCABANDERA | Gregor Johann Mendel è stato un biologo considerato il precursore della moderna genetica per le sue osservazioni sui caratteri ereditari. Dopo i suoi studi è più facile capire se qualcosa appartiene o meno a qualche specie, genere, categoria. Quando Mendel è nato, era già in uso la nomenclatura binomia, la convenzione standard utilizzata in sistematica per conferire il nome scientifico ad una specie, composto dal nome del genere a cui appartiene la specie e da un epiteto che caratterizza e distingue quella specie dalle altre appartenenti al quel genere (es Homo erectus, Homo sapiens).
La questione ci viene in mente a proposito del debutto in prima nazionale a Cagliari di “Qui e Ora”, la pièce scritta e diretta da Mattia Torre, che segna il ritorno al palcoscenico di Valerio Mastandrea dopo il monologo “Migliore”. Ci viene in mente perché dopo lo spettacolo ci siamo per un certo tempo (relativamente breve) interrogati per capire se questa commedia commissionata dalla produzione cagliaritana BAM Teatro, ed interpretata oltre che daValerio Mastandrea, da Valerio Aprea, possa essere ascritta alla categoria vaga, indefinibile e geneticamente modificata di “nuova drammaturgia”. Se sul sostantivo (Drammaturgia, il nome del genere, se il paragone è lecito) non v’è dubbio, l’elemento critico ricade sull’aggettivo (l’epiteto “nuova”) che dovrebbe declinare il genere nella sua caratteristica estranea al modello prototipico.
Una cosa è quindi nuova se ha caratteristiche di cui non si possa postulare la conformità rispetto ad altro calco; con riguardo alla drammaturgia, dovremmo parlare di qualcosa che, ad esempio, introducesse uno schema narrativo con un linguaggio, un riferimento al tempo scenico, all’azione, allo spazio, che incorpori appunto una qualche novità rilevante.
Insomma, con qualcosa che riproponesse un tradizionale schema di inversione dei ruoli all’interno di un canovaccio da commedia, in cui l’ammiccamento al pubblico dovesse continuare per quasi tutto il tempo con un’impostazione da ironia noir, prima di proporre un finale tragico, saremmo nel già visto e già sentito abbondantemente. Tutto il sostrato delle sceneggiature della commedia all’italiana degli anni 60, avendo incorporato la lezione del neorealismo, era basato su questo schema. Insomma di nuovo ci sarebbe assai poco.
E’ questo il nostro pensiero a proposito di Qui e Ora, titolo che peraltro in noi appassionati di nuove drammaturgie, evocava ben altri sussulti, essendo il titolo di una altro testo teatrale, quello si nuovo, di Roland Schimmelpfennig “Hier und Jetzt” che nell’edizione 2009 del Theatertreffen fu affidata, per quella che poi divenne la sua ultima regia, al grandissimo Jürgen Gosch. Un allestimento che ricordo ancora per slittamento di piani narrativi, sequenze irreali e scene indescrivibili per complessità che ho poi rivisto in qualche modo copiate in molti spettacoli successivi.
Quella di Cagliari è invece la storiella di un conduttore radiofonico che ha un incidente di moto. Nel suo delirio personale il personaggio, dal tratto isterico aggressivo, non trova neanche nell’incidente causa per fermarsi, dando vita ad una diretta audio dal luogo dello schianto, e con l’altro incidentato che pare lì lì per morire. Il finale invertirà i ruoli e si scoprirà che l’incidente non era poi frutto del caso.
Nel testo, la chiave di volta dall’ironico al drammatico è talmente schematica e secca da risultare posticcia e mal studiata. Il finale è schiacciato, come l’intervento di un deus ex machina che risolve senza spiegare o, come in questo caso, fornire elementi credibili in una logica del reale (che alimenta d’altronde lo spettacolo in generale) per quello che risulterà essere un tentato omicidio.
La scena proposta a Cagliari da Beatrice Scarpato non sfrutta il palcoscenico, è didascalica e parziale al contempo, mentre il disegno luci di Luca Barbati risulta banale, con un leggero abbassamento dell’intensità sul finale a lasciar intendere un’ora prossima al tramonto, e un passaggio dai toni caldi a quelli freddi per l’attimo fatale con cui si chiude lo spettacolo, rimarcato da una versione registrata dell’Ave Maria di Gounod, che ci è sembrata (anche questa, sic!) non esente da errori né sul latino né sull’intonazione della cantante. E’ parso maggiore lo sforzo per il disegno luci al momento degli applausi che quello per l’intero spettacolo. Ci sarebbe piaciuto parlare delle nostre inquietudini con i protagonisti e chi ha scritto il testo. Ma non è capitato.
Siamo rimasti per oltre quaranta dei sessanta minuti in una dimensione surreale, fuori da uno spettacolo che raccoglieva, attorno a noi, grasse e sempliciotte risate in un pubblico che era lì al 90% per vedere il divo tv, attorno al quale è stata costruita la solita drammaturgia che dovrebbe calzargli a pennello, mettendogli vicino una spalla. Niente di sfidante, niente di nuovo. Per nessuno. Uno spettacolo che, in fondo, vale, per l’intima logica che lo pervade, il pubblico che richiama. Non dunque di Nuova Drammaturgia trattasi, ma solo di una Drammaturgia nuova. ¡Que viva Mendel!