ANDREA CIOMMIENTO | Nel punto ultimo il lirico canto zittisce l’inferma. Il canto di corvo, seduto a mezz’asta, getta violentemente la voce a chi guarda impietrito il lento progredire di una morte annunciata fin dal suo titolo. “Corsia degli incurabili”, regia di Valter Malosti, conduce gli ultimi istanti di una donna malata e stanca di sudore ora distesa sulla sedia a ruota ferma. È il gioco di luci a legare il lavorio di suoni e rumori reiterati e ricercati con interessante minuzia registica, scanditi dalla partitura poetica dei versi interpretati da Federica Fracassi su opera scritta da poetessa contemporanea e vivente Patrizia Valduga. Versi scellerati di treno in corsa pronti a schiantarsi nella laguna che riecheggia in quella memoria incurabile, come la spazzatura mediatica trangugiata per trent’anni, come il corpo che deteriora l’anima della femmina destinata a sputare tutto senza lasciar spazio al sorriso disteso ma solo al pugno contratto. La donna è già fantasma quanto la luce e la voce di Carmelo Bene che le appare in canto leopardiano vicina alla luna nella stanza; anche se in verità attende Pascoli con la sua decadenza e l’arrivo del Ministro della Sanità in quest’occasione carnefice. Altri cento presidenti di Arcore presiedono le trame psichedeliche e luminescenti dell’ospedale; e i tangentisti come gli altri fascisti sono accanto a lei gracchiando ancora e ancora, raschiando la memoria senza rifuggire. Propongono la reiterazione dell’inferno in vita, quel quotidiano pronto ad aprire e a rendere interminabile la corsia dei “mai curabili” eppure non affetti da malattie terminali.
I versi in scena si contornano in sessanta minuti di atto performativo aperto alla violenza, al sarcasmo e allo scrostare di ferite ancoravermiglie. Entrano dentro al sangue senza soluzioni di misericordia ma solo morte e buio per spazientire. “Corsia degli incurabili” è la proiezione di una pena di morte per mano della natura, di qualche dio, o degli stessi uomini incapaci di trovare rimedio all’incurabilità del nostro passaggio fragile su questa terra. È scena di dolori, luci che spezzano il respiro e trattengono il lento fluire delle nostre vite vicine e lontane a chi, in quella corsia incurabile, si accosta ed è costretta ad attraversarla tutta fino in fondo al Golgota, cadendo e trascinandosi per arrivare chissà dove: al punto ultimo, lirico o gretto, della porta di una voragine che ancora non conosciamo.
Il monologo è un lasciapassare consegnato in culla, decodificazione della corsia dove poter sfregare muri ospedalieri senza rovinarli; lasciandoli intatti nonostante l’umano tentativo di fuga che solo la poesia garantisce, converte in salvezza, protegge allo spasmo, allontana dal materialismo esistenziale prossimo al dolore presente a tratti in questa storia figurata in scena.