ronconi3RENZO FRANCABANDERA | Era dai tempi de Il Porcile di Massimo Castri, con le scene di Maurizio Balò, che non si vedeva uno scorcio visuale così ardito. Allora il piano scenico era rialzato, inclinato e il soffitto ribassato, lasciando agli attori uno spazio finto e claustrofobico, fatto di erba sintetica, fiori di plastica e uno sfondo nero. Quello in cui Luca Ronconi ambienta il suo Panico, drammaturgia che fa parte di una eptalogia di Rafael Spregelburd, drammaturgo contemporaneo argentino ormai di fama mondiale, è un universo scenico angosciante al contrario. Gli spazi che Marco Rossi pensa per la scenografia sono parimenti inquietanti: il pavimento di parquet giallo fosforescente ha un’inclinazione prossima ai venti gradi, dal proscenio a salire verso il fondo. Le tre pareti sono delimitate da teli di tessuto bianco alti cinque-sei metri, fino al soffitto, a creare ampiezze da chiesa gotica in cui vagano anime in pena al bordo fra mondo dei vivi e mondo dei morti.

Se infatti questo sia un mondo reale o abitato da vite ormai trapassate, al di là della drammaturgia, lo lasciano intendere sempre le scelte sceniche, con poltrone, divani e ogni altro orpello foderato come in una casa disabitata e illuminata da quelle luci che chi ha visto gli ultimi lavori di Ronconi inizia ad avere familiari, appartenendo al codice cromatico al gusto di neon di A. J. Weissbard. Perdersi in questo spazio enorme, con queste luci fredde, fra le note “siderali” delle musiche di  Hubert Westkemper è così facile che anche lo spettatore più attento, dopo le prime tre scene prova la sensazione di chi si è perso in un bosco buio e non vede via d’uscita.

Non la vede perché in fondo né a Spregelburd né a Ronconi interessa lasciarla intravedere. Perché l’Ade è uno spazio senza pareti, le cui chiavi di decrittazione sono impossibili da trovare in un mondo frenetico e distratto come il nostro.

La chiave è, non a caso, quella intorno a cui ruota una parte della drammaturgia: è la chiave di un tesoro, che dovrebbe essere un tesoro materiale, ma ancor più immateriale, derivando proprio dal dialogo con l’aldilà. Finirà buttata nell’immondizia; sia la ricchezza materiale che quella spirituale.

Sugli attori, parlare di tutti è impossibile e, raro a potersi dire, nessuno è sotto la linea dell’eccellenza. Segnalare poi lo stato di grazia assoluto di Maria Paiato è quasi pleonastico.  Dopo la prova in assolo con l’Anna Cappelli di Annibale Ruccello di inizio dicembre, la straordinaria interprete italiana conferma le qualità assolute e il sentimento di agio totale entro il perimetro variabile dei disagi di Spregelburd. Per non dire della ectoplasmatica inconsistenza di Sandra Toffolatti, di un super Pierobon, Orfeo che dal regno dei morti viene a cercare un dialogo con i vivi, che paiono però non comprendere i segni e i messaggi.

Ma bene tutti, dagli attori della famiglia del Piccolo, come  Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Bruna Rossi, Elena Ghiaurov, Clio Cipolletta, fino a Iaia Forte, Lucrezia Guidone, Manuela Mandracchia, Valeria Milillo, María Pilar Peréz Aspa, Valentina Picello, Alvia Reale e Fabrizio Falco. Riescono a mantenere tutti un recitato ostentatamente e ostinatamente sopra le righe, antinaturalistico e spaesante, ma che dopo un po’ diventa la regola di un mondo al bordo.

Questa drammaturgia ha la potenza di spiegarsi con la regia e la regia di spiegare la drammaturgia. Siamo dunque in quel ristrettissimo ambito in cui il teatro si compone dei suoi elementi vivificanti in forma sostanziale. Nulla dunque di per sè è assoluto se non proprio in relazione con il tutto il resto degli elementi che compongono lo spettacolo dal vivo. Il testo probabilmente in quanto tale non varrebbe un allestimento così, e un allestimento così senza un testo che desse spazio alle inquietudini che incorpora non potrebbe arrivare a soggiogare il pubblico come di fatto fa, per oltre tre ore.

Ad un certo punto ho pensato che in fondo comprendere cosa succede passo dopo passo è assolutamente inutile, forse perchè elemento costituente non è l’intreccio drammaturgico ma le circostanze. D’altronde Spregelburd stesso nelle sue lezioni all’Ecole de Maitres confermava ai suoi studenti come le sue drammaturgie nascano dall’assemblaggio di elementi che spesso si orgininano in forma assolutamente autonoma fra loro.Lo scrittore costruisce appunto queste circostanze che hanno senso di per sè, che testimoniano un modo d’essere dei personaggi che la vivono, una caratteristica di un ambiente abitato e poi tessere un legame fra le circostanze. Quello che lega queste circostanze è un pretesto, ovvero quello che è tessuto prima, che serve a nascondere il vero motivo. Il motivo di questo lavoro, come dice esplicitamente il titolo, è il panico, uno stato di paura e insicurezza per lo più collettivo, a fronte di pericoli veri o presunti e che porta a compiere atti non di rado avventati. Questo c’è nel testo? In realtà no, ma in profondità il sentimento di inquietudine, di risposta istintiva all’incomprensibile, di danno e sfregio alla logica e al senso comune sono gli ingredienti profondi di questa costruzione ad orologeria che Spregelburd e Ronconi confezionano.

E’ uno spettacolo convincente, bello, fatto con grande amore per il teatro e che dal teatro viene ricambiato. E va visto.

Di seguito un video sullo spettacolo del Piccolo Teatro di Milano

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