MARIA CRISTINA SERRA | L’esistenza è composta di dettagli: piccole cose che assumono grandi significati. Desideri e sogni si mischiano alla realtà e cercano ali per volare in alto. Manuel Alvarez Bravo (1902-2002) aveva imparato a non avere fretta, ad assaporare la cantilena lenta del tempo, in cui nulla è statico, tutto è un continuo fluire di forme, fra le quali scorgere schegge di sentimenti e fascinazioni del quotidiano. “Don Manuel” (così lo chiamava lo scrittore Carlos Fuentes) “è un genio, capace di regalare un istante di riposo alle turbolenze del mondo, affidando a chi guarda il compito di restituire movimento all’immagine”. La vita rurale e le tradizioni, la vita di strada e la gente che l’anima, la luce del giorno che taglia angoli e facciate con “magico realismo”, le ombre misteriose che insinuano solitarie inquietudini, diventano presto lo scenario dove realizzare il suo “sogno ad occhi aperti”, dove non c’è posto per eroi, celebrazioni, monumenti.
Il Jeu de Paume ha celebrato il maestro della fotografia messicana, che camminava al passo col Tempo. Come spiegano i curatori dell’expo ”Manuel Alvarez Bravo, un photographe aux aguets” (dal 13 febbraio al 19 maggio anche alla Fondaciòn Mapfre di Madrid), Laura Gonzales Flores e Gerardo Mosquero: “le sue sono immagini fragili, delicate, impalpabili. Così la fotografia diventa poesia in grado di catturare il passaggio transitorio degli esseri umani sulla terra”. Alvarez Bravo non rimase estraneo ai profondi fermenti sociali e politici che attraversarono il suo paese dalla rivoluzione del 1910 in poi, né restò indifferente a quella passione civile e culturale a tinte forti, nella definizione d’una identità nazionale, che tanto appassionò l’intellighenzia del tempo. Il suo impegno si concretizzò nella sperimentazione di un nuovo linguaggio fotografico, nel quale unire i motivi più arcaici, legati alla sua terra, con le inquietudini della modernità: ”l’importante per un fotografo è la sua opera, la sincerità la capacità di trascendere il piano documentale e cogliere la pienezza umana”
Il forte legame ideale con Diego Rivera, Frida Khalo, Rufino Tamaya, Tina Modotti, Edward Weston, Cartier-Bresson ed Eisenstein non lo distolse dall’individuare, fin dagli anni Venti, una sua autonomia intellettuale che ben presto superò i confini geografici, per farsi modello etico e artistico, centrato sulla dignità e l’equilibrio insito nella realtà, pronto per essere catturato e sublimato.
C’è in Bravo il senso perenne di un lungo respiro, denso di quiete, dove all’attimo fuggente si sostituisce la pazienza della lentezza, resa con tratti raffinati, senza artifici. La concretezza vitale del reale e l’immaginazione lieve dell’astrazione si armonizzano fra di loro, plasmate da sapienti e discreti effetti di luce che strutturano la composizione. Ogni cosa per lui nasconde un segreto da rivelare; una visione del mondo, dove anche la linea sottile fra il visibile e l’invisibile si carica di atmosfere oniriche: ”la luce e l’ombra hanno esattamente la stessa dualità che esiste tra la vita e la morte”.
Ritagli di carta, avvolta in spirali o piegata in origami, si trasformano con il suo obiettivo in onde minimaliste per la serie “Vogues de papier”: macchie di umidità sui muri e gocce di vernice sparse sulle pareti in tracce di esistenze da decifrare. La freddezza del calcestruzzo gli ispira il senso costruttivista del presente, in cui piani e linee si incontrano nello spazio in sintesi estrema, come in “Triptyque beton”. Modernità e passato vanno di pari passo nella sua arte. L’immobilità delle croci piantate in terra fra le rovine in spettrali geometrie hanno la struggente malinconia dei ricordi d’infanzia, segnati dai lutti della guerra civile e nello stesso tempo mostrano un profondo senso di spiritualità, fissato pure da figure di angeli, di Cristi, di scale che si innalzano.
Il linguaggio di Alvarez Bravo sembra cifrato: una campana sospesa fra le travi in un orizzonte indefinito e una casupola affiancata da tre scheletri di alberi (“Trois arbres et une maison”) possono trasmettere quel senso di infinito che può nascondersi fra le pieghe della banalità apparente. Con eleganza espositiva, la mostra si sviluppa in otto capitoli, per facilitare l’orientamento nella vasta produzione di questo maestro, ancora troppo poco conosciuto. “Formare”, “Costruire”, “Apparire”, “Vedere”, “Esporsi”, “Camminare”, “Sognare”, “Giacere”: sono le voci verbali sotto cui i curatori hanno raccolto la sua multiforme opera, iniziata da autodidatta. “Fu la fotografia di Atget a mettere sottosopra il mio modo di pensare, a indicarmi le strade da percorrere”, confidava.
Giacciono in un tempo e in uno spazio sospeso le sue immagini-icone: ”Ouvrier en grève assasiné” e “La bonne renommée endormie”. Il giovane operaio assassinato durante uno sciopero giace in una pozza di sangue che disegna una macabra maschera sul volto, disteso e rivolto al cielo; il contrasto fra il bianco della camicia aperta sul petto e lo scuro del fondo è addolcito dalla stretta angolazione; la pietà prevale sulla violenza, la drammaticità trascende l’evento per conferirgli un valore eterno, che lo innalza a simbolo. La tensione estetica è palese nel ritratto della ballerina di “buona reputazione”, distesa nuda, con i fianchi e le caviglie fasciate, nella vulnerabilità del dormiveglia. Era nato come un manifesto surrealista, concordato con Andrè Breton, ma poi l’atmosfera fantastica messicana prevalse, grazie al sottile gioco di dissimulazione della composizione. “L’invisibile è sempre contenuto nell’opera d’arte che lo ricrea. Se l’invisibile non può essere percorso, l’opera d’arte non può esistere”.
“La fille des danceurs” è un’alchimia di equilibri e di misteri. La ragazza, vestita di bianco, il sombrero e lo scialle sceso sulle spalle, ripresa mentre osserva nel tondo di una finestra una scena che possiamo solo immaginare, sovverte la semplicità dell’atto. C’è una storia oltre il muro piastrellato che rompe il silenzio iniziale, trasformando un’istantanea stilisticamente perfetta, in un racconto poetico nel quale il mistero e la magia si fondono in un palpabile senso di serenità. La seduzione delle parole entra nell’inquadratura, la completa. La contrapposizione di elementi in “Pàrabole optique” crea un effetto multiplo: occhi e occhiali nel negozio d’ottica si riflettono nelle vetrine e intercettano il nostro sguardo in un gioco di dissonanze. Sono i titoli spesso a fornirci la chiave di lettura delle sue foto, una specie di ponte per attraversare la realtà e rivederla allo specchio, come “Les amoreux de la fausse luna”, che per sognare non devono attendere la notte.
Qui il link all’archivio di Bravo con tutte le foto, divise anno per anno.
Qui un filmato sulla mostra realizzato dalla galleria
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