LAURA NOVELLI | Si è conclusa nei giorni scorsi al Teatro Valle Occupato la tournèe dello spettacolo “Don Giovanni, a cenar teco” diretto da Antonio Latella e imbastito su una drammaturgia originale firmata dallo stesso regista insieme con Linda Dalisi. Il lavoro, recensito per PAC da Renzo Francabandera lo scorso anno, eredita in parte il registro espressionista del precedente “Un tram chiamato desiderio”(premio Ubu 2012 per la regia) e anticipa la ricerca che ha condotto Latella e la sua nuova compagnia stabilemobile (composta per lo più da artisti legati al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli) al recente “Francamente me ne infischio”, ispirato alla saga-mito del film “Via col vento” e il cui debutto è atteso per il 10 marzo al Teatro delle Passioni di Modena. Dunque, il mito del temibile seduttore sembra quasi fungere da ponte tra la fragilità nevrotica della Blanche di Williams e la forza capricciosa di Rossella O’Hara (“Essa – scrive Latella – è una giovane donna senza scrupoli che affronta tutte le difficoltà con spirito di conquista, incapace come il suo popolo di riconoscere la sconfitta anche quando se la trova davanti […]. Rossella è l’America”). Don Giovanni collega cioè idealmente l’amore malato della prima all’ostinazione contraddittoria della seconda e, anche per questo, offre ampia materia di riflessione.
E però, nell’allestimento visto al Valle, il libertino più dissoluto e discusso di tutti i tempi non è più quello di Molière, non è più quello di Mozart/Da Ponte, non è solo quello di Max Frisch (“Don Giovanni o l’amore per la geometria”) ma, piuttosto, un crocevia di questi spunti di partenza: un uomo concreto che fa della sua vita un banco di prova per dimostrare l’impossibile scientificità della passione amorosa (“è un teorema spietato sull’inganno e sulla matematica dell’amore – dice il regista – e non sul sentimento dell’amore”) e, in ultima analisi, l’insensatezza della vita umana. Motivo per cui egli, pur dimostrandosi un personaggio assolutamente contemporaneo, reclama un’indagine a ritroso dentro i meandri fondativi del suo mito senza tempo. Perché se è indubbio che a funzionare da volano per la diffusione teatrale e letteraria del Don Giovanni fu la commedia “El Burlador de Sevilla” di Tirso de Molina, è pur vero che da lì i suoi semi si sparsero in tutta Europa e, approdati in mano ai Comici dell’Arte italiani, essi dettero vita a una serie di svariati canovacci, per poi trovare più raffinata dimora nell’invenzione di Gian Battista Andreini. Grande drammaturgo secentesco, anch’egli intriso di modelli dell’Arte e di vezzi da capocomico eclettico (era a capo della compagnia dei Fedeli), nel suo “Il nuovo risarcito convitato di pietra” seppe trasformare l’avventura di quel Don Giovanni beffardo e burlador in una grande, magica, opera barocca colma di richiami musicali, dove in gioco troviamo la plasticità teatrale di un libertino che seduce le donne con la stessa pregevole capacità metamorfica con cui seduce il pubblico. Il mistero del personaggio ha perciò a che fare essenzialmente con il mistero dell’interpretazione attorica.
“Don Giovanni – scrive Luciano Mariti nella prefazione all’edizione del testo – non seduce, come pensa Kierkegaard, solo per genialità sensuale, cioè per il suo stesso desiderare; ma per il modo in cui conduce una concreta azione fisica. […] Il suo obiettivo è quello di possedere, in quanto seduttore, ma la modalità è quella dell’attore: quella di rendere la relazione interessante”. Egli, dunque, attraversa con temeraria audacia i secoli, i generi letterari e artistici, la storia del pensiero e della cultura, gli afflati religiosi e i valori etici, l’immaginario collettivo e la sensibilità individuale ma soprattutto condensa in sé la vita e la morte, la luce e il buio, l’energia della seduzione e il lutto del peccato, la sacralità della passione e la dissacrazione della morale: il corpo vivo e quello spento, diffamato e diffamante. In definitiva, egli è teatro. Teatro allo stato puro. Teatro in quanto smascheramento della finzione, in quanto pulsione vitale che sdogana l’abuso della ragione, mescolando le carte del reale e del trascendente, facendo vacillare certezze e luoghi comuni. Teatro in quanto corpo che agisce “ora” seguendo un come e un perché. Questo è probabilmente il suo aspetto più affascinante e più duraturo.
E Latella sembra accorgersene. Se ne accorge quando porta un grande faro in scena a illuminare i monologhi dei personaggi; quando spinge la corda del grottesco; quando rompe il filo narrativo con numeri da cabaret espressionista o con canzoni pop; quando condensa interi passaggi nel canto lirico mozartiano; quando rovescia la mascolinità nel transgender. E se accorge soprattutto quando affida al servitore Sganarello (alter ego anch’egli rovesciato del peccaminoso padrone) il compito di abbattere la quarta parete e di cercare nel pubblico la tomba del Commendatore e quando, nel finale, concede al suo protagonista la possibilità di un doppio finale: quello eroico e quello umano. Non sono forse questi tutti echi della seducente metafora attraverso cui il suo Don Giovanni ci parla delle menzogne e delle (dis)illusioni che costellano il mondo/teatro di sempre e di oggi?
Disegno Renzo Francabandera
Una bella intervista a Latella realizzata al Garibaldi Aperto di Palermo
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