MARIA CRISTINA SERRA | Davanti all’azzurro sfolgorante dei quadri di Hopper si prova quel senso istintivo di vertigine, fatto di paura e di attrazione, che solo le grandi emozioni sanno regalare. Si entra subito in sintonia con le sue storie dipinte come sequenze cinematografiche, dominate dal silenzio assoluto del “non-detto”, ma reso esplicito dai gesti. Si rimane avvolti dalle sue atmosfere sospese, dalla luce dei suoi paesaggi esteriori che riflettono implacabilmente le ombre interiori delle intime esistenze. Le sue solitudini tratteggiate con colori contrastanti e linee nette, decise, racchiudono sempre possibilità narrative dagli sviluppi incerti, perché la malinconia da lui rappresentata non è altro che un filtro attraverso cui osservare la realtà nella sua costante duplicità.
I suoi personaggi si isolano dalla folla per trovare angoli di salvezza; il buio della notte interrotto dal neon è un rifugio protettivo sotto cui camuffarsi; il sole abbagliante che entra dalle finestre spalancate si proietta obliquo sui muri delle stanze per riempirle di una dimensione trascendentale. Il verde smeraldo delle siepi e degli alberi circonda protettivo le sue bianche case dal tetto spiovente e dalle grandi vetrate; l’oceano, in lontananza, offre orizzonti in cui perdersi, lo sguardo si dirige verso oblii rigeneranti.
La pittura di Hopper sfugge dai luoghi comuni coniati per definirla, continua a creare salutari smarrimenti, a sollecitare riflessioni. A ricordarci che la realtà, quando non è sterile conservazione delle convenzioni, è sempre apertura alle possibilità.
La mostra “Edward Hopper”, curata da Didier Ottinger per il Grand Palais a Parigi, si è presentata come un’occasione preziosa per approfondire le multiformi sfaccettature dell’opera di un artista dalla complessa personalità. “Lo scopo della mia pittura”, raccontava, “è sempre stato quello di trascrivere fedelmente le mie impressioni più intime sulla natura, di fissare sulla tela le mie relazioni con l’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più”. Rispettando la sua “esperienza interiore” che con coerenza accompagnò il suo percorso creativo (”nello sviluppo di ogni artista la base dell’opera più matura si trova già nei primi lavori”), l’expo è stata concepita come una sequenza cronologica e tematica di piani sovrapponibili, in uno scenario suggestivo in cui s’incontrano le atmosfere estetiche novecentesche del “Vecchio e Nuovo Mondo”, così come si sono depositate nell’ immaginario del pittore americano. Senza artifici, con un realismo che solleva il velo sulle illusioni apparenti, per rivelarne lo strato più nascosto, i contrasti cromatici di Hopper ci invitano a captare senza inganno le alienazioni metropolitane ed esistenziali del suo tempo, le stesse che affollano il nostro presente.
Parigi e New York sono i suoi perimetri di formazione, i luoghi delle emozioni, i palcoscenici concettuali dove ambientare i suoi personaggi in cerca di destini da interpretare; gli spazi per catturare i pensieri e poi tradurli in immagini, costruite con raffinatezza, per liberarne i paradossi e gli enigmi irrisolti; cancellare le linee di confine fra ciò che rassicura e ciò che inquieta. Gli anni parigini furono frammentari, ma fondamentali per definire la sua ricerca. Dalle due città-simbolo della modernità inizia la mostra. Sono le straordinarie vedute metropolitane di Degas (dal quale apprende la prospettiva) ad accoglierci, seguite da quelle di Vallotton, Marquet, Sisley, i realisti americani Robert Henri e John Sloan, e i due fotografi documentaristi Mathew Brady e Eugene Atget. La crudezza del primo si contrappone alla leggerezza del secondo. Due mondi a confronto che si fondono in Hopper, nonostante la lontananza geografica e culturale.
E’ una Parigi grigia e piovosa ad accoglierlo la prima volta, nell’inverno del 1906, lontana dalla vita bohémienne di Montmartre e Montparnasse e dalle avanguardie. E’ una città dagli angoli nascosti quella che lui disegna, dai toni spenti, osservata dai ponti e dagli argini dei Lungosenna. Sono approcci impressionisti, assorbiti durante le ore passate nelle sale del Louvre e del museo di Luxembourg. Alla New York School of Art aveva imparato a padroneggiare matita e pennello; a Parigi a dare forma ai suoi pensieri. Poi, per sempre, ci sarà solo lo studio del Greenwich Village, al numero 3 di Washington Square, per dipingere l’immensità di un’America “on the road”, attraversata coast to coast al volante di una Buick bicolore. Diventa un testimone del suo tempo, un antieroe solitario che va al cuore dei problemi e ci attira nelle pieghe nascoste della vita, eliminando il superfluo, lasciando che una sottile ironia penetri come un raggio di sole attraverso le persiane.
“Tutto quello che volevo fare”, dirà, “era dipingere la luce del sole sul lato delle case”. Il mondo di Hopper lo sentiamo familiare; ci lascia la sensazione amara e veritiera che si avverte al risveglio del “Grande sonno” di Raymond Chandler, o il senso di sollievo dopo essere usciti dai labirinti di Dashiell Hammett e di Edgar A. Poe. Si torna con la memoria alle pagine di Hemingway, di Henry James, di Faulkner, al disagio che cova sotto la quiete, al senso di imprevedibilità, che può smuovere le certezze, al sussurrato “i would prefer not to” e all’opposizione sommessa dello scrivano Bartleby di Melville, che irrompe come un grido nel guscio ovattato di uno studio legale newyorkese, facendolo implodere.
Simili al dipanarsi di una trama letteraria, le dinamiche interne dei suoi dipinti scorrono parallele agli spazi circostanti. Percorrono autostrade interminabili per riprendere fiato solo davanti ad una pompa di benzina (“Gas”) o per riposare in anonimi motel. Le regolari prospettive si aprono al lento fluire delle sensazioni. Uomini e donne consumano la loro indifferenza in “Room in New York”, “Summer in the City”, “Hotel by a Railroad”, e “Excursion in to philosophy”. Solo una vetrata ricurva separa gli avventori del bar notturno, avvolto nel verde di una fredda luce al neon (“Nightawks”), isolati nelle loro passioni occasionali dal mondo esterno. Sembra il preludio al serial TV “Mad Men”, il suo “Office at night”. I riflettori del palcoscenico evidenziano impietosamente la nudità della ballerina di “Girlie Show”. Il sipario si chiude con “Two on the aisle” e le porte del cinema si aprono alle sue tematiche. Hitchcock , Polanski, Wim Wenders, che in “Paris Texas” crea un connubio perfetto fra i luoghi e i drammi dei due protagonisti, mentre il flusso dei ricordi e l’amore spento filtrano attraverso uno specchio divisorio.
Il video con un’esauriente intervista ad Hopper:
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