GINA GUANDALINI | L’italiano che arriva a New York nella confusa – per noi – fine del febbraio 1913, si immerge nella consueta atmosfera di iperattività e sangue freddo che qui caratterizza cose e persone. Una visita alla Coffee Fest – nome che è un curioso connubio di inglese e di austriaco – , manifestazione che da più di un decennio fa il punto sulla cultura del caffè, può servire a rompere il ghiaccio (metaforicamente ma anche concretamente, chè per strada resiste ancora il gelo invernale). Chi pensasse di sapere tutto sulla tazzina di espresso deve venire qui al Javits Center, sulla riva del Hudson, a immergersi in una nuvola di aroma e a fare i conti con le ultime novità in fatto di macchine produttrici, miscele, presentazioni di caffè corretto e latte macchiato. Qui si chiama, come è noto, semplicemente “latte”, e alla Coffee Fest è oggetto di un serissimo concorso per il miglior disegnatore sulla schiuma di superficie. Vincitrice è una giovane barista di Shanghai, con tre cuori concentrici di panna e cacao.
Altrettanto seria e impegnata è una vecchia conoscenza, la cioccolateria Ghirardelli di San Francisco, onnipresente su tutti i banconi con le sue creazioni di soufflé e biscottini – davvero all’altezza dei più raffinati laboratori di Belgio o Svizzera o Torino.
Qui il filmato dell’edizione dell’anno scorso con le incredibili creazioni in tazza
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Sarebbe bello affermare che nel bicentenario della nascita di Wagner e Verdi la Metropolitan Opera risolva l’annosa crisi del canto operistico con un Don Carlo di canoro splendore. Ma non è così. Nelle recite dei primi di marzo l’andazzo dei tempi si riconferma: c’è la regìa di Nicholas Hytner che è applaudita da almeno tre stagioni ed è non provocatoria ma sontuosa, e solenne, un po’ ingessata; e nonostante la direzione di Lorin Maazel ci sono voci deludenti. Degli inaciditi loggionisti scaligeri farebbero, e non a torto, una minuziosa rassegna degli interpreti, sbandierando i loro nomi, e segnalerebbero che Filippo II ha voce stomacale, il mezzosoprano strilla, il tenore ha la voce “indietro”, il famosissimo aitante baritono sbraita, e via rantolando. Qui non è la sede. Basti segnalare che a un paio di critici newyorkesi è venuto effettivamente il dubbio che l’esecuzione vocale fosse stentata, ma loro sono interessati quasi esclusivamente all’evento teatrale, che in questo dramma di Verdi tratto da Schiller non manca mai. Anche il pubblico si entusiasma per i valori drammatici e affolla il Lincoln Center con fervore. Quando si scopre che sei taliano c’è sempre qualcuno che ti chiede di spiegare un point del libretto.
Qui il regista ne parla in un’intervista di qualche tempo fa
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Appena in tempo: nel cinquantenario dell’uscita del primo film di James Bond – Dr.No, intitolato in Italia Agente 007 licenza di uccidere – , che fu girato nel 1962 con un budget limitato e divenne, inaspettatamente, un trionfo planetario, un nuovo filone cinematografico e un fenomeno culturale, il MoMa ha organizzato tra ottobre e febbraio un omaggio con rassegna filmica. Dal 1986 la casa produttrice inglese Eon dona al MoMa una copia 35mm di ogni film di James Bond non appena va in cantiere il film seguente ( non c’è, curiosamente, Never Say Never Again, che nell’83 vide il ritorno di Connery, in quanto non fu prodotto della Eon). Ben custoditi in un caveau della Pennsylavnia, i 22 titoli bondiani sono considerati documento storico e sono stati ripresentati a New York con immutato successo di pubblico.
Il fenomeno 007 fu un’esplosione di creatività (“Mi sembra uno di quei film che fanno fare un passo avanti al cinema”, dichiarò Fellini dopo avere visto Goldfinger ) e qui al MoMa c’è stata un’esibizione collaterale ancora più intrigante.
Con la mostra Goldfinger: the Designs o fan Iconic Film Title il MoMa si concentra per la prima volta sulla creazione di titoli di testa, e quelli dei film di Bond negli anni ’60 furono un esplosione di visualità pop, Robert Brownjohn, americano di genitori inglesi, studiò alla Bauhaus di Chicago, dove divenne un grafico all’avanguardia e un protetto di Laszlo Moholy-Nagy. Si trasferì a Londra agli albori dell’era swinging, e là i produttori Saltzmann e Broccoli gli commissionarono i titoli di testa dei film From Russia With Love e Goldfinger. Curò anche la copertina del LP dei Rolling Stones Let it Bleed, con la famosa “torta “ a molti strati, nel 1969; l’anno seguente, in pretto stile swinging London, morì di overdose di eroina. Qui al Museo si può ammirare la sigla di apertura di Goldfinger: mentre la cantante Shirley Bassey ruggisce la famosa canzone omonima del film, brevi sequenze riguardanti i personaggi principali sono proiettate sul corpo tutto d’oro, in continuo movimento, di una ballerina apparentemente nuda: i procedimenti d’avanguardia della scuola di Moholy-Nagy sono enfatizzati dalla pornografica insolenza dello stile-Bond. Una consapevolezza dell’importanza della cultura pop, che il MoMa è sempre il primo a storicizzare.
Il racconto della mostra nel video della AFPRF con un’intervista ad Anne Morra, che cura la sezione cinema del MOMA
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