fotoMARAT | A un certo punto Andre Agassi non vince più. Ha perso entusiasmo lo scugnizzo di Las Vegas. La risposta supera l’incrocio delle linee, il rovescio a due mani finisce in rete. Questione di vizi, donne sbagliate, manager che han rotto le balle e quel concetto che racchiude un mondo: nessuna gioia per una vittoria è pari al dolore per una sconfitta. Insomma, il guappo col parrucchino ha un che di esistenzialista. Così molla tutto e ricomincia dai tornei universitari. E risorge. Comunque Agassi mi è venuto in mente pensando alle recenti chiacchierate sullo stato dell’arte. Dove a raccontare del mondo del teatro c’erano i soliti amici: vecchi assessori, nuovi assessori, vecchi direttori di stabili (di quelli non ce ne sono di nuovi), vecchi professori universitari (idem), rivoluzionari istituzionalizzati. Radical-chic inchiodati alle poltrone, nel curioso ruolo di dar voce a problematiche popolari. Già. Oppure grillini teatrali de noantri, che ancora non si capisce bene come possano unire le istanze dei Lavoratori dell’Arte con la gestione da ragazzini di un qualsiasi centro sociale. Retoriche varie, slogan di più di mezzo secolo fa, velleità post-sessantottine. E io che pensavo ad Andre Agassi. Non so perché, come diceva Raz Degan. Forse sono fatti miei… O forse perché mi saliva quel bisogno di un passetto indietro, di respirare con più agio. Di sentirsi assumere parte della responsabilità delle cose, che non è che cada tutto maledettamente dall’alto. Un passetto indietro magari a fianco di impiegati e tecnici, quelli che non parlano mai. Oppure a fianco di chi fa i salti mortali per pagare tasse e contributi, mettere lo spazio a norma, trovare finanziamenti senza taroccar le carte. Un passetto indietro per fermarsi e ricominciare. Invece no, la solita logorrea di giacobini in camicia botton down. Anche se bisogna ammettere che si vestono meglio. Perché diciamolo una volta per tutte: i pantaloni nepalesi non faranno mai bene a nessun tipo di causa. Manco a quella dei nepalesi.