le-fumatrici-di-pecore-foto-santa-castignaniRENZO FRANCABANDERA | Le fumatrici di pecore della compagnia Abbondanza/Bertoni aveva debuttato a Castiglioncello l’estate passata, quale esito di un percorso di crescita e confronto fra Antonella Bertoni e Patrizia Birolo.

Riproposto per alcuni giorni al PIMOff di Milano, ha fatto registrare sempre il tutto esaurito, quasi a dimostrare come esista un passaparola sotterraneo ma incessante su ciò che è di qualità, o con cui comunque vale la pena le intelligenze sensibili si confrontino. Effettivamente l’estate scorsa era stata grande la commozione degli spettatori che avevano assistito al debutto.

Scenicamente, a parte un tavolino di legno sgangherato e senza tutte le gambe ben messe, situato alla destra del palco, due candelabri e qualche pecorella di plastica di quelle della collana deluxe della Schleich (che fa pagare un po’ più cari ma rifiniti a mano i capi di bestiame) non c’è altro se non le due interpreti, vestite di una tunica corta di cotone scuro. Scalze.

La personalità complessa e non canonica di Patrizia Birolo, il suo immaginabile vissuto deprivante, il suo corpo rotondo, poco istituzionale eppure così interessante, intriso di vita e segnato, per un verso. La nota e indescrivibile, longilinea eleganza di Antonella Bertoni dall’altro.

L’intelligenza delle due donne inizia un gioco fin dall’inizio, un gioco la cui trama risiede in una sorta di percorso iniziatico all’arte coreutica che la seconda vorrebbe rendere alla prima. Ovviamente, come in tutte le storie di confronto con il disagio, si capisce come poi, nell’evolvere dell’allestimento e verosimilmente anche di quella che fu la fase di preparazione allo stesso, le parti spesso di invertono, i ruoli si capovolgono, come avviene proprio dal punto di vista fisico anche nel duetto.

Lo spettacolo ha una sorta di unconventional ouverture, con le due che per riscaldarsi e quasi preavvisare il pubblico, entrano in scena in modo familiare per un riscaldamento di voce e corpo. In realtà questo presunto riscaldamento dura poi tutto lo spettacolo perché, al di là delle luci che si abbassano, lo spettacolo vero e proprio è un sequel organico del riscaldamento, con movimenti, imitazioni, tentativi, voli goffi e voli leggeri, ironia sull’arte scenica, attraverso lo sguardo forse non del tutto consapevole di Patrizia ma che, proprio in quanto tale, incorpora la crudeltà del fanciullo che grida “Il re è nudo”.

Nella performer che trascina inginocchiata un asse di legno per il palcoscenico nel senso della longitudinalità si coglie quasi il portato, il riferimento diretto ad una via crucis, ad una salita al Golgota.
E sulle note della Petit Messe Solennelle di Rossini e del bellissimo Kyrie con quel dialogo magico e così raro fra pianoforte e armonium, la simbologia dell’innocenza, dello sguardo diverso ma forse più acuto, prosegue e si sviluppa a questo punto per una più chiara volontà registica, allorquando viene introdotto, nella seconda mezz’ora di spettacolo, un riferimento al simbolo protocristiano dell’agnello salvifico e al contempo sacrificale.

Il tavolino si muta in altare, e in un paio di dissolvenze luminose e sovrapposizioni iconografiche, la ragazza diventa per analogia “la pecora nera” chiamata dalla società ad una faticosa e impossibile scalata verso un orizzonte cui evidentemente non arriverà mai. E così la sagomina della pecora nera rimane a mezz’aria, poggiata sull’asse che dovrebbe portarla in cima al tavolino, dove la aspetta tutto il gregge “bianco”, proprio come il personaggio protagonista di Novecento di Baricco, che resta a metà nel tentativo di scendere dalla nave che lo ha ospitato per tutta la vita.
Qui la simbologia è un po’ rovesciata ma il senso d’irrimediabile sospensione, incomunicabilità e impossibilità di condividere con il resto del consesso umano è lo stesso.

Il dialogo fra le due donne, i due esseri umani, le rispettive fragilità che la trama spettacolare è capace di mettere in giusta luce, sono la parte sicuramente più interessante dell’allestimento, che di ciò si nutre e in ciò trova alimento.
La simbologia su cui la regia ragiona, appare, a lungo andare, inutilmente insistita, in alcuni accostamenti perfino didascalica, e toglie poesia proprio perché accosta in sillogismo diretto e prova a dire in forma esplicita, come se il regista reclamasse per il suo occhio una presenza che nel duetto e nel dialogo fra le due donne in fondo non c’è e di cui fondamentalmente, per certi versi, per questi versi, non si sente necessità.

Insomma, in nessuna altra arte come nella danza l’esigenza di aggiungere segni e simboli ai corpi diventa ancillare. Proprio per la particolarissima presenza scenica di Patrizia, la pecora nera, ad esempio, diventa accostamento superfluo (e quindi in quanto tale facilmente eliminabile), introducendo una lettura che non dialoga alla stessa limpida altezza con quanto si scambiano le due protagoniste e con ciò che, per parte loro, sono in grado di costruire. Oltre le parole, oltre i segni, oltre le sovrastrutture del gregge di pecore bianche di cui facciamo parte.

Foto dell’articolo Santa Castignani
Qui un video dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=E_E_wv2vP4g]

2 COMMENTS

  1. credo che di “didascalico” qui ci sia questa recensione, sicuramente poco attenta, del tentativo “titanico” di unire “mondi” a diversi livelli. Il teatro dà alla danza quell’umanita’ che la danza restituisce ai sensi dello spettatore teatrale.
    Michele Abbondanza mai come in questo spettacolo riesce a superare entrambe le poetiche per dare e ridare allo spettatore “ricordi di speranze” …a prescindere dallo stile.
    Invece, come spesso accade, il critico autoreferenziale che chissa’ se ha visto questo spettacolo, legge le traduzioni dirette e non quelle simbolico trascendentali. La pecora nera non solo non rimane a mezz’aria ma protegge quel gregge di inconsapevoli pecore…dal burrone verso il quale stanno …guardando senza vedere…(ti proteggo io Antonella..penso io a te ….)
    Cosi’ come, ahime’, i nostri recensori contemporanei….

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