beckettmauriLAURA NOVELLI | Glauco Mauri e Roberto Sturno tornano a Beckett. E ci tornano con un lavoro, “Da Krapp a Senza parole” il titolo, che intende esplicitamente riannodare un doppio filo: quello con l’autore che meglio di altri ha saputo descrivere lo spaesamento dell’uomo contemporaneo e quello, non meno significativo, con la loro stessa storia artistica. Mauri, infatti, nel ’61 fu il primo interprete italiano de “L’ultimo nastro di Krapp” e di “Atto senza parole”; nel ’73 recitò con Laura Betti in “Beckett ‘73” su regia di Franco Enriquez e nel ’90, già in coppia con Sturno, diresse una silloge di dieci atti unici divisi in due parti (“Dal Silenzio al Silenzio” e “Senza voce, tra le voci rinchiuse con me”) che si aggiudicò il Premio della Critica ’91.

Questo nuovo allestimento beckettiano, in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino al 21 aprile, nasce dunque con un debito di riconoscenza nei confronti di importanti esperienze passate. Come se i due artisti (da decenni artefici di progetti condivisi) volessero in un certo qual modo misurare la forza di questa drammaturgia così scandalosamente innovativa a distanza di anni, modulandone le vibrazioni e il senso (anche) sui sedimenti che le tante diverse interpretazioni fatte nel frattempo hanno lasciato nel loro vissuto di uomini e di teatranti. Beckett sembra, infatti, aver quasi accompagnato, come un sottofondo di motivazioni e di domande sull’uomo, l’intero percorso creativo della coppia. Tanto quanto, del resto, egli ha accompagnato e nutrito, talora in modo esplicito talora in sordina, buona parte del teatro contemporaneo.

Impossibile dire qualcosa di nuovo su di lui. Ma partiamo da un ricordo. Nel 2007, per celebrare il centenario della nascita dell’autore irlandese, Peter Brook  attinse a cinque titoli brevi assai poco frequentati sulle nostre scene (“Come and go”, “Rough for Theatre I”, “Rockaby”, “Act Without Words II”, “Neither”) e ne trasse un unicum di estremo nitore, “Fragments”, dove la semplicità dell’impianto scenico sposava la geniale afasia di una lingua ridotta all’impossibilità stessa di dire. Mentre assistevamo allo spettacolo di Mauri/Sturno ci è tornata in mente quella messinscena e ci è tornata in mente anche un’affermazione del grande regista anglo-francese: “Beckett è un autore che tuffa lo sguardo nell’insondabile abisso dell’esistenza umana. S’inserisce sulla sottile linea che lega il teatro greco antico, attraverso Shakespeare, al nostro tempo, celebrando senza compromessi la verità, una verità sconosciuta, terribile, sconvolgente”.

beckettmauriE ciò capita non solo nei suoi capolavori più celebri ma anche nelle opere brevi, nei monologhi, nei testi di pura azione. “Da Krappa a Senza Parole” (regista lo stesso Mauri) mette insieme, non a caso, “Respiro” (1969), “Improvviso dell’Ohio” (1981), “Atto senza parole” (1957) e “L’ultimo nastro di Krapp” (1958), preceduti da un prologo, a dire il vero un po’ didascalico, in cui i due attori, chiusi in bidoni come i Nagg e Nell di “Finale di partita” ma citando brani di “Aspettando Godot”, ricostruiscono qualche stralcio biografico dell’autore e lo chiamano in causa (complice la proiezione di gigantografie) per raccontare con le sue stesse parole qualcosa di quel privato che egli difese sempre con decisa riservatezza.

Il registro dominante della pièce combina dunque, sin da subito, toni tragici e toni ironici da pantomima, suggerendo senza troppe allusioni l’ambivalenza di una drammaturgia che gioca fino in fondo la sua partita con il grottesco. Tanto che al lampo di intuizione visiva e sonora mostratoci in “Respiro” (una scena cosparsa di rifiuti e animata solo da un piccolo grido, poi da un vagito, e da precisi effetti di luce) segue la compostezza drammatica, e assolutamente misteriosa, di “Improvviso dell’Ohio”, dove due figure identiche siedono attorno ad un tavolo per imbastire (forse) il ricordo di una donna amata e ormai scomparsa, per fare (forse) una confessione a se stessi, per mettere (forse) faccia a faccia un uomo e la sua anima.

Arriva poi la clownistica impossibilità di accedere ai desideri – e dunque di vivere – raccontata con sarcasmo alla Charlot in “Atto senza parole”, affidato all’ottima prova di Sturno: un omino perso nel deserto tenta di fare qualcosa, vorrebbe prendere la brocca d’acqua che scende dal soffitto, non ce la fa, ritenta, non parla mai. Il suono di un fischietto scandisce i suoi “atti”: il ridicolo incedere dell’esistenza umana assume la fisionomia di un buffone destinato a mancare sempre la sua azione.

E’ tuttavia nell’ultimo quadro della silloge, “L’ultimo nastro di Krapp”, che il lavoro trova il suo momento più poetico e commuovente. Questo Krapp anziano, maldestro, quasi claudicante, indifeso, rintanato in una montagna di ricordi e rancori, è davvero l’immagine dell’infelicità, della nostalgia intesa etimologicamente come “ansia del ritorno”. Mauri ci regala un’interpretazione intensa e credibile che è un tuffo sordo nella solitudine, nel silenzio dell’oggi rispetto alla voce e ai sogni di ieri. Qui il richiamo alla sua personale biografia artistica si fa esplicito: utilizzando lo stesso nastro già impiegato nella messinscena del ’61, l’attore ritorna alle ragioni di quell’allestimento di cinquantadue anni fa e ci lascia intendere che la disperazione e l’angoscia sono sentimenti senza età.

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