LAURA NOVELLI | “L’ispirazione può arrivarmi da qualsiasi cosa. Nei miei testi non parlo mai di me, della mia vita. Non scelgo mai un tema. Mi guardo intorno e mi conforta notare come ciò che scrivo sia sempre più insignificante e meno scioccante di quanto leggo nei giornali”. Intervistato in occasione del Laboratorio internazionale di drammaturgia condotto l’anno scorso a Venezia per la Biennale Teatro, il drammaturgo e sceneggiatore statunitense Neil LaBute ha spiegato così la matrice della sua scrittura. Una scrittura diretta, apparentemente semplice, dura, provocatoria, ironica, lontana da astrusi sperimentalismi ma quanto mai vicina alla realtà, alla violenza plateale e/o sottile della società odierna, alla storture più inquietanti delle relazioni umane, agli archetipi mitologici di una classicità assurta spesso a paradigma etico di un mondo che ha ormai perso ogni armonia.
Divenuto celebre a metà degli anni ’90 con il dramma “Nella società degli uomini”, ritratto di un gruppo di amici ambiziosi, opportunisti e misogini, che nel ’97 è stato tradotto anche in un film di successo (su regia d’esordio dello stesso LaBute), questo cinquantenne ex-mormone dal fisico robusto e il volto simpatico, ha le idee molto chiare sul teatro e sui ferri del mestiere necessari a chi intenda fare l’autore: «Il personaggio è la colonna del dramma – spiega – ed è un modo per dare voce a desideri e necessità. Il monologo è la tecnica che permette al personaggio di dialogare col pubblico, di far cadere la quarta parete. Non mi dispiace essere provocatorio e violento perché l’importante è non lasciare spazio tra attori e pubblico. Eliminare il senso di sicurezza degli spettatori. Farli sentire in una situazione reale. La provocazione serve anche a questo: a creare una connessione col pubblico».
A Venezia LaBute ha lavorato intensamente sulla tecnica dell’improvvisazione nella scrittura, sottoponendo i giovani allievi a prove di creatività istintiva ed estemporanea (“bisogna scrivere con la pancia e non solo con la testa”), per certi versi simili agli esercizi di improvvisazione strutturata degli attori. E proprio a Venezia il regista Marcello Cotugno, da anni suo convinto ammiratore (basti ricordare lo straordinario “Bash” allestito più di una decina di anni fa per il Festival di Benevento e la messinscena de “La forma delle cose” vista al Piccolo Eliseo nel 2005), ha avuto modo di confrontarsi direttamente con lui e progettare una nuova regia dedicata a tre monologhi mai andati in scena in Italia.
Detto fatto. L’esito di quel felice incontro si intitola “Re[L]azioni” e, presentato al teatro Spazio Uno di Roma nei giorni scorsi, cuce insieme gli assolo “Totally”, “Bad Girl” e “War on Terror” che trovano in Bianca Nappi un’interprete capace di attraversare sfumature espressive molto diverse tra loro (negli ultimi anni l’abbiamo vista in tre pellicole di Özpetek: “Un giorno perfetto”, “Mine vaganti” e “Magnifica presenza”), difendendo una buona dose di “italianità” e, al contempo, evocando una maschera mimica di richiamo ancestrale.
Nel primo quadro ella è una ragazza incinta che, seduta al bar in attesa di “qualcuno”, spiattella senza troppa reticenza a un’amica la spietata vendetta messa in atto ai danni del compagno, colpevole di averla tradita. Levità da adolescente birichina e sguardo diabolico da stratega di guerra, la donna racconta la meticolosa scientificità con cui ha deciso di portarsi a letto tutti gli amici del fidanzato, cancellandone via via i nomi dall’agenda come fosse un catalogo degno del peggior Don Giovanni. Qualcosa però tradisce la sua azione, una stilla di turbamento, un’incertezza nel dire che – condita da un marcato accento pugliese che colora troppo la situazione – ci racconta i malcelati tremolii della coscienza, l’ambiguità delle apparenze, le subdole pulsioni di un io sospeso tra integerrima dedizione alla “causa” e (in)consapevole senso di colpa. Non per niente, la storia viene anticipata da un video reclutato su Second Life che mostra una coppia in dolce attesa e il travaglio del parto: segno che, nella confusione tra reale e virtuale in cui siamo macinati ogni giorno, la violenza quotidiana propria dei rapporti di coppia trova facilmente asilo, battendo strade traverse che girano al largo dal confronto diretto e dalla comprensione profonda dell’altro/a.
Il sesso diventa palestra di sfogo e di cinica spericolatezza morale anche nel secondo titolo del trittico – il più debole, secondo noi – dove un’attrice (e dunque una donna che finge per professione), ricevendo in camerino la telefonata di una cugina scopertasi cornificata dal marito, elargisce consigli su come riparare quella rottura, quello strappo. La solidarietà femminile si nutre qui di un forte senso di disprezzo per i “maschi”, abbassati al ruolo di meri oggetti di piacere troppo spesso “sfigati” e perversi. Ma c’è un ma. Perché l’invettiva di questa donna sola e disperata (tanto da ricordare qualcosa de “La voce umana” di Cocteau) sembra in fondo un’invettiva contro se stessa, contro l’assenza di un legame solido e vero, contro l’illusoria (torniamo dunque al teatro) felicità accreditabile ad un Eros svuotato di amore.
E’ però nel terzo monologo che LaBute – fermo restando il consistente lavoro di adattamento e regia fatto da Cotugno, che disegna un lavoro asciutto e nitido, arricchito da brani orecchiabili dei Platters e di Bobby Vinton, e da bei giochi di luce – tira le fila del discorso. Scorrono immagini tratte da un videogioco di ambientazione bellica. In scena c’è ancora una volta un’attrice che, seduta in modo sempre più scomposto su un divano, mostra al pubblico il cappello del suo uomo morto in Iraq durante la guerra. La commozione personale trascolora presto in rabbia, in feroce attacco all’Islam, in volgare denigrazione dell’intero popolo dei musulmani. L’intolleranza piccolo-borghese di questa giovane donna – personaggio tra le cui controverse corde la Nappi si districa con indubbia incisività – ha tutta la forza di un proclama terroristico; promana senso di livore e di condanna; è in sé un pestaggio dell’umanità. Tuttavia anche qui c’è un ma. Perché nel corso del suo comizio, ella scorge nel pubblico un uomo che, ci lascia intendere, la segue da tempo, la tartassa, la va a vedere in qualsiasi sala reciti. Dunque, è lei la vera perseguitata? Il presunto stalker diventa giocoforza il suo bersaglio. Da vittima la donna si trasforma, ancora una volta, in carnefice. Perché non esiste terrore al quale non si possa/debba rispondere con il terrore. Tutti siamo mostri. Tutti nutriamo ossessioni. Tutti vorremmo scagliarci contro qualcosa o qualcuno.
“Re[L]azioni” è insomma costruito come un crescendo di pathos ed emozioni nere. Alla fine resta un senso di svuotamento. Un peso sullo stomaco. Certamente questi tre brevi testi non posseggono la forza sghemba e disarcionante di “Bash” (opera per la quale nutriamo da sempre un’entusiastica predilezione), ma ci parlano con sfacciata sincerità di noi. Dei nostri tempi. E se LaBute non li considera tanto “indecenti” quanto la cronaca dei giornali, dipende semplicemente dal fatto che a teatro possiamo sempre nasconderci dietro il pretesto della finzione.
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