RENZO FRANCABANDERA | Un uomo dissoluto abbandona figlio e anziana moglie. Il ragazzo viene su un po’ ribelle, prova a fidanzarsi con la bella di paese e, quando scopre che un altro sta per sposarla, irrompe alla festa di matrimonio e la rapisce. La fuga si sposta in un mondo incantato fra troll e altre bestie della fantasia nordica: detta così sa di avventuroso.
Arrivano poi anche altre ragazze a popolare, fra sogni e realtà, le turbolenze del giovane, portandogli vertigini e brufoli. Insomma adolescenza; nel caso specifico quella di Peer Gynt, un Pinocchio dalle pulsioni filosofico/amorose più marcate, le cui vicende Ibsen raccontò in un poemetto di cinque atti, passato alla storia per il commento musicale che alla prima ad Oslo (allora Christiania) ne fece Grieg.
Incuranti del caveat che persino Wikipedia riporta (“Si tratta di un dramma destinato alla lettura, non ad essere rappresentato sul palcoscenico”), in diversi hanno inteso riprendere la sfida del testo, compresi grandissimi del calibro di Bergman e Wilson, e Charlton Heston è stato Peer in un film del 1941.
In Italia ci si arrischia Guido de Monticelli in una produzione dello Stabile di Sardegna: un’indagine sull’adolescenza condotta con un gruppo di creatività giovani chiamate a leggere lo spazio scenico, la musica e ovviamente a sorreggere l’interpretazione.
L’operazione in linea generale non è concettualmente priva di interesse, a maggior ragione perché abbinata ad una tre giorni di studi filosofici sul tema del sé e dell’identità, che vien fuori da un dialogo fra Peer e il re dei troll e che diventa poi il tormentone del poema ibseniano.
Le vicissitudini amorose di Peer (nella storia compare un numero vivace di ragazzine in cerca di amore) sanno avere un sapore shakespeariano da Giulietta e Romeo, e l’impianto narrativo non può non ricordare anche il Sogno di una notte di mezza estate. Dei cinque atti del poemetto, De Monticelli porta in scena i primi tre. Il personaggio principale viene caricato sulle spalle poco più che trentenni di Simone Toni, che porta a casa un buon risultato. Nel ragazzo c’è talento ma ancora devono affinarsi alcuni elementi che la maturità solamente conferisce all’attore, come il gioco sui toni vocali baritonali, trascurati a vantaggio di una resa dal sapore più fisico ed esagitato, e il tema centrale della pausa nella recitazione. Su questo rimandiamo all’interpretazione più esperta di Cesare Saliu (nella parte del re dei troll) che proprio dall’appoggiare le parole, dal creare pause fisiche e retoriche, sa generare aspettativa, atmosfera, nel potente episodio dell’uno contro tutti di Peer fra i troll. Bene, fra gli attori dello Stabile, Lia Careddu nella parte della madre e fra i giovani piace l’irriverente potenziale di Elisabetta Spaggiari.
In scena anche i giovani musicisti del Conservatorio di Musica Pierluigi da Palestrina che soprattutto nella parte di accompagnamento percussivo con strumenti di risulta riescono a creare spessori sonori interessanti (meno ispirate le riletture dei classici per orchestrina).
Restiamo poco convinti dal progetto visivo/scenico degli studenti della Facoltà di Ingegneria e Architettura – Sezione Architettura dell’Università di Cagliari.
Il loro universo di materiali da discarica, che all’inizio dello spettacolo è coperto da teli bianchi quasi a formare piccoli iceberg in un fiordo (e questa idea non è male), in realtà risulta con l’andare dello spettacolo concettualmente autocentrato, non profondamente in dialogo con le dinamiche del palco, che finisce per condizionare troppo rigidamente.
La struttura, una pedana ascendente di forma ad U che sale dall’anteriore al fondo del palcoscenico, viene un po’ goffamente mascherata da una discarica post industriale di gomme d’auto e lamiere quasi in primo piano che, più che coprire al pubblico l’impalcatura (sempre valido il rimando a Kantor sulla visibilità dell’artificio scenico) finisce per inibire allo sguardo buona parte del palco, costringendo poi a innaturali movimenti laterali, ad un andirivieni che invece che dare l’idea delle fratture spazio/temporali, crea una certa entropica inquietudine. Il movimento scenico cui costringe gli interpreti risulta quindi poco ordinato e non aiuta a comprendere il già di per sé non agevole adattamento drammaturgico.
D’altronde sempre Wikipedia mette in guardia: “Le difficoltà dovute ai rapidi e frequenti cambi di scena lo rendono comunque di difficile rappresentazione”. De Monticelli, uomo riflessivo e di letture robuste, giustamente non legge i riassunti di Peer Gynt in rete, si ciba degli originali. Anche se, in questo caso, a buttare un occhio all’enciclopedia digitale, non sbagliava…
Qui un dietro le quinte dello spettacolo
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