ALESSANDRO MASTANDREA | Il cinema americano degli ultimi decenni è caratterizzato da una tendenza al citazionismo e alla mescolanza di quei generi, un tempo rigidamente divisi, che costituivano l’ossatura portante delle strategie commerciali dei grandi studios.
Poco importa se questa nuova tendenza sia stata determinata dall’influenza del post modernismo, o, più semplicemente, da un banale inaridimento della vena creativa e da strategie di marketing orientate allo sfruttamento. Quel che è certo, è che questo nuovo sangue che ha preso a irrorare il corpus cinematografico holliwoodiano, non sempre è stato in grado di produrre novità di rilievo, nel senso di una sperimentazione di forme e contenuti nuovi.
Sotto quest’ottica, il genere fantascientifico non costituisce un’eccezione. E’ indubbio infatti che già a partire dagli anni ’50 questo genere, sebbene spesso relegato nell’ambito dei b-movie a basso budget, poteva vantare il peculiare primato di riflettere molte delle paure che assillavano la psicologia sociale di un’intera nazione. Posti sotto la lente della metafora, film come “l’invasione degli ultracorpi”(1956, Don Siegel), evocavano la paura del “diverso nascosto in mezzo noi”; dell’anticomunismo o dell’antimaccartismo, a seconda dell’angolo di lettura. Col venir meno delle ideologie, l’autoreferenzialità appare oggi come uno dei pochi sbocchi percorribili dal cinema di sci-fi, e il recente Oblivion ne costituisce dimostrazione esemplare.
Nel 2073 la terra è una enorme landa deserta, devastata da un’invasione aliena e da una guerra da cui la razza umana è uscita vittoriosa, a scapito del pianeta. Jack Harper (Tom Cruise) e sua moglie Victoria (Andrea Riseborough), in apparenza gli ultimi umani che abitano il pianeta, hanno il compito di sorvegliare la rete di droni che proteggono (da sparuti gruppi di alieni ancora presenti) le enormi idrovore che trasformano la poca acqua rimasta sul pianeta in energia da convogliare su Titan – luna di Saturno su cui l’umanità si è trasferita. Non tutto, tuttavia, è come sembra. Il povero Jack è tormentato da una bellissima sconosciuta che gli appare in sogno, quasi si trattasse di un ricordo dimenticato. Ma è quando scopre l’esistenza di un manipolo di umani sopravvissuti, guidati da Malcolm Beech (Morgan Freeman), e quando assiste al rientro sulla terra di una astronave e del suo equipaggio posto in animazione sospesa, che le sue certezze crollano del tutto.
Centoventi milioni di dollari per 135 minuti di fascinazione visiva, nel solco dei blockbuster dalla solida confezione, con pregi e difetti annessi. Questo è Oblivion. Tra i pregi va annoverata la sceneggiatura che prevede ritmi incalzanti e azione a profusione, oltre che tre svolte narrative ben congegnate cui corrispondono altrettanti cambi di ambientazione e di toni, quasi si trattasse di tre film differenti- cui vanno aggiunte le suggestioni visive di cui i tre capitoli sono ricchi. Fantascienza, action movie e ambientazioni post apocalittiche, queste le direttrici su cui si muove il regista Joseph Kosinski. L’intento – ma anche il limite di cui accennavamo – è quello di omaggiare la filmografia di genere. Ma la sua foga citazionista (da “2001 odissea nello spazio”, a “Il pianeta delle scimmie”, a “Occhi bianchi sul pianeta terra” – e se ne possono trovare altri) pare risolversi in un esercizio sterile. Tematiche ben più impegnate vengono nel migliore dei casi sviluppate in modo superficiale, se non addirittura sfiorate (a conferma della distanza che separa la produzione odierna da quella passata). Eppure, di spunti interessanti se ne sarebbero potuti trovare.
Dallo sfruttamento insensato delle risorse naturali, che insegue la chimera della crescita del PIL, al divario – fisico e sociale- tra alto e basso, rappresentato da Jack e Malcom. Tra chi possiede tutto e chi niente. Tra chi abita in lussuosi attici che lambiscono le stelle e che è ammesso per privilegio di censo al consumo degli ultimi ritrovati della tecnologia, e chi invece non possiede nemmeno il diritto alla casa, vivendo un’esistenza misera alla base della piramide sociale, in basso tra gli scarti – anche tecnologici – dei primi. Più in generale, della continua omologazione cui l’umanità è sottoposta (per capire in che termini lo sia Jack, vi consigliamo la visione del film) nella corsa al consumo di beni. L’illusione che il loro possesso ci garantisca anche il controllo delle nostre esistenze, mentre ignoriamo di essere kafkianamente soggetti a una elite ancor superiore. Jack Harper invece, oltre i dubbi funzionali all’intreccio, non pare presentare alcuna di queste ombre. E’ il mito americano del cowboy che veglia sulla grande frontiera, che per tutta la vita ha eseguito gli ordini impartiti, e che nel finale non mancherà di redimersi nell’immancabile happy ending.
In Oblivion, dunque, oltre la forma preponderante, pare manchi un’anima. Quel qualcosa che solleciti le nostre menti e ne giustifichi il ricordo, oltre, naturalmente, ai primi piani di un Tom Cruise il cui ego è definitivamente appagato da un ruolo da protagonista quasi unico: ma solo per il forfait del resto della razza umana.
Tom Cruise…
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e L’invasione degli ultracorpi…
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