181021_171501959674422_1219435688_nANDREA CIOMMIENTO | Nella sua prima edizione torinese gli artisti del Fringe calpestano le strade urbane con vitalità d’intenti. La rassegna/ventaglio nasce da un’idea “storta” (si legge da comunicato) come prospetto di una vivace comunità culturale che non vuole farsi divellere. Nessuna élite di settore ma il segno di una morbida esplosione che desidera aprire nuovi spiragli per la scena indipendente in spazi non convenzionali dediti all’incontro tra spettatori e artisti.

Il Torino Fringe Festival è la guida esperienziale ai locali del centro, la ripresa di una cerchia invisibile di non-teatri nell’area del Quadrilatero, come il K-Hole, il Circolo Rainbow e lo Spazio Ferramenta o i più marginali, seppur vicini, Cecchi Point, Circolo OltrePo, San Pietro in Vincoli, Magazzini sul Po e Caffè del Progresso. Dieci giorni di spettacoli in un  programma cortese pronto a ospitare artisti e pubblico in ognuno degli spazi predisposti (da venti spettatori a salire) con conseguenti “sold out” nelle sale più minute: spazi integrativi -non alternativi- aperti ogni giorno dalle quattro e mezza del pomeriggio a sera inoltrata.

Abbiamo seguito, tra le varie proposte di spettacolo, La protesta – Una fiaba italiana, della Ballata dei Lenna, un canto delicato e nascosto che dissequestra le alterazioni dei nostri tempi: “disoccupazione”, “crisi economica” e “ribellione”. Nicola Di Chio, Paola di Mitri e Miriam Fieno sono attor giovani freschi di accademia ma già consapevoli della propria presenza scenica. Sono autori e interpreti di un lavoro essenziale che chiarifica il declino italiano alla ricerca convulsa di una protesta esistenziale e dell’identità di tre povere anime disperse e allontanate dal loro pane quotidiano.

Distinta nell’architettura drammaturgica ma affine nella sua pulsione sociale, scopriamo la freschezza dinamica de La spremuta di Beppe Casales. La narrazione inizia dal mercato delle “arance di Sicilia” e della loro parziale origine siciliana; il paradosso fa approdare in Calabria a Rosarno nei giorni della rivolta degli immigrati contro la ‘Ndrangheta e uno Stato inesistente. L’orazione civile è netta, incisiva e di sostanza, alleggerita dal ritmo e dalla qualità di sguardo dell’attore in scena. D’altra pasta le rivelazioni sceniche di Dario Benedetto della Compagnia Torcigatti con il suo Piglia un uovo che ti sbatto, presagio di apparente superficialità trasformata speditamente in leggerezza. L’attore torinese racconta il suo legame con il mondo femminile, la collaudata “teoria delle cosce” senza macismi e la concezione di “uomo misurato”. La parola si fa colloquio psicoanalitico fatto di teoremi da assimilare e verità da trasmettere allo spettatore, donna o uomo poco importa.

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Ancora un assolo nella dimensione del teatro/danza con Quintetto, di e con Marco Chenevier (Compagnia TIDA di Aosta), una performance corale ripartita fin dall’inizio, in cui l’attore/performer chiede agli spettatori il supporto tecnico e artistico facendo ricoprire i ruoli di artisti e ausiliari, tecnici luci e audio. Comprensibile finalità: uno spettacolo sui tagli alla cultura e sulla ricerca scientifica con dedica performativa a Rita Levi Montalcini. Altro “solo performer” tra musica elettronica e voce manifesta con Didie Caria e il suo Voce per il teatro, un patch work di musiche originali su testi propri, lavori passati e tracce di letteratura universale tramite l’opera di Buzzati, Saint-Exupéry e Calvino. Un allestimento in loopstation con chitarra, tastiera e webcam su palco. La rivelazione di pubblico e stupore, con passaparola giornalieri di sera in sera, porta il nome di Mi sono arreso a un nano, la ballata di disperazione e sorriso dei Mercanti di Storie, con Massimiliano Loizzi (narratore) e Giovanni Melucci (musicista). Una serata di confessioni viscerali sulla quotidiana oscillazione tra il sublime e l’o-sceno della vita di Piero Ciampi. L’interazione ricettiva di Loizzi supera l’azione scenica e la durata prevista coinvolgendo e portando lo spettatore a sentirsi parte organica dello spettacolo stesso, attivando in ognuno il sentimento più intimo, alleggerendosi di significato e arricchendosi di senso.

Potremmo chiederci, da ultimo, quale sia il riscontro da parte della città di Torino che ha ospitato un nuovo festival indipendente portando fin dal suo nome la vivace vocazione del Fringe scozzese, sberleffo suburbano di nobile serietà nato ai “margini” dell’ufficiale Festival di Edimburgo (Edimburgh International Festival) che da decenni porta avanti la costruzione di un alfabeto scenico in dialogo con le città del mondo e con le arti tutte. Potremmo chiederci, anche, quale sia il taglio cristallino che unisce la programmazione selezionata e proposta (a Edimburgo l’esplosione performativa non accoglie cernite da parte di una direzione artistica: lo staff scozzese si fa garante di supporto organizzativo e promozionale portando così a un’esplosione consapevole e intelligente); potremmo infine chiederci se gli artisti italiani -attingendo dalla vitalità edimburghese- stiano perseguendo anch’essi, oltre al nome/marchio, la ricerca di nuovi alfabeti di creazione artistica e il desiderio di un tratto personale, identitario e irripetibile. In altre parole: ci chiediamo nei termini più sani se il TO-Fringe sia un’azione nata dal basso ma pronta ad alzarsi in piedi per scoprire la propria altezza; o quantomeno quella del suo padre nordico.

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