RENZO FRANCABANDERA | Fra Cinque e Seicento deve essere successo qualcosa di grave. Sono diversi nella storia del teatro e della letteratura di quel tempo i testi sulla necessità di sedare la bizzarria femminile. Se nel III secolo dopo Cristo le donne contribuirono in maniera decisiva all’affermazione del culto cristiano su quello mitraico, grazie al fatto che il culto di Cristo era loro permesso a differenza di quello di Mitra, cosa sia successo fra 1500 e 1600 non è proprio chiaro. Certo, ciò che accadde il secolo dopo, si. Forse Shakespeare nel 1591 lo subodorava. Chissà.
Il tema torna in mente mentre la mia figliola di pochi mesi agita le braccia in una piscinetta, in una settimana di interrogativi sulle questioni di genere e sullo specifico femminile in Italia. Non entriamo nemmeno nel tema femminicidio, che è cosa talmente raccapricciante da alimentare tanto il ribrezzo profondo della parte civile del genere umano quanto interi palinsesti pomeridiani della peggiore tv commerciale.
Le letture di questi giorni regalano però due chicche che aiutano a meditare su una delle drammaturgie shakespeariane più controverse, in scena in questi giorni al Piccolo Teatro e non facile da veder proposta, proprio perché non agevole da trattare, “La bisbetica domata” nell’interpretazione della compagnia inglese Propeller.
La prima chicca è la notizia riportata da il Fatto Quotidiano che rende testimonianza di un attore travestito da donna in Egitto, molestato per strada da molti uomini durante una passeggiata. Era successo anche ad una giornalista francese, in collegamento dal Cairo. A lei come ad oltre il 95% delle donne in quel paese.
La seconda è l’apostrofo con cui il capo (uomo) di una forza politica di ampio consenso ritiene di qualificare ex ante il potenziale professionale di una neoministra, rea di essere “solo” una canoista olimpionica. Dovrebbe dunque un elettore chiedersi senza pregiudizi cosa potrebbe mai proporre di geniale in Parlamento un impiegato postale (portavoce al Senato di quella stessa forza politica)?
Eppure in questo caso avverto disagio, in questo apostrofare con senso di superiorità di giudizio che è proprio maschile. Solo maschile. Grossolanamente maschile. Disagio di trovarmi (mio malgrado) nel genere della quasi metà dell’umanità che giudica prima di conoscere cosa sa fare l’altro/a, lo zittisce prima che possa parlare, sente bisogno di addomesticare la bisbetica che pensa diversamente, quella metà che mette le mani al culo senza il consenso di chi la riceve.
Ci penso guardando la piccola che agita le braccia in acqua e scorrendo i pensieri passatimi per la testa qualche sera fa, riflettendo su come lo stesso Shakespeare che ha raccontato Ofelia, uno scrittore, un artista, abbia costruito (è vero, dieci anni prima) una drammaturgia intorno alla necessità di ammansire la bizzarria femminile, di costringere l’altro essere umano ad inginocchiarsi, a chiamare il sole luna e la luna sole, pur di diventare obbedientemente omologa.
Per questo sentimento di disagio penso occorra vedere l’allestimento dei Propeller in scena al Piccolo Teatro di Milano. Per assaporare una messa in scena realizzata da soli uomini (caratteristica della compagnia, come nella miglior tradizione del Seicento), giocata sottilmente, ma inesorabilmente, sul maschio che usa apparentemente supremazia intellettuale (ovviamente inesistente), ma nella sostanza protervia fisica. L’eroe è il domatore, bello, prestante, furbo. La donna bisbetica, invece, fisicamente poco femminile, è un po’ punkabbestia, “fuori”. L’allestimento, nella parte che tratta dell’ “ammansimento”, il secondo atto, calca sul rapporto di forza, sull’esercizio di una superiorità che in alcuni momenti si fa violenta, corporale, tanto che la protagonista finisce con il suo vestito nuziale letteralmente infangato, trascinata alla genuflessione.
Mi chiedo se sia l’unica lettura possibile questa, l’unico modo di raccontare questa storia. Se quattro secoli dopo, cercando di mantenersi prossimi ad un gusto popolare e al sentimento shakespeariano come i Propeller cercano di fare, sia impossibile leggere in modo diverso questi rapporti. Se non nella sostanza almeno nella forma. O se invece sia giusto raccontarla così, abbinando a quell’atteggiamento maschilmente domatorio la violenza che lo connota. Come nel finale de Travolti da un insolito destino, con Giannini che insegue la Melato, prendendola a ceffoni con accento meridionale:”Ma cosa sei tu? Panteeera, seppeeente, porcooona?”
Mi assalgono questi pensieri mentre la mia piccola galleggia, e faccio di tutto perché venga su dolce e bizzarra, che sappia affermare il suo sensibile; mentre spero dentro di me che nessuno la giudichi prima di capire cosa sa fare, che nessuno le allunghi le mani al culo che lei non voglia, che possa essere donna serena, al limite anche canoista e ministra nella stessa vita, in una società senza domatori.
Alcune scene dello spettacolo
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[…] trasformazione” a cura della Consulta Universitaria del Teatro di Redazione (Ateatro, 20 maggio) Le donne da domare, da Shakespeare ad oggi: pantere, serpenti o… canoiste? di Renzo Francabandera (PAC – Paneacquaculture.net, 20 maggio) Genova, il Teatro Archivolto […]