MARAT | “Loro perbenino a raccogliere i libri e tutti a scrivere sui giornali; noi a smadonnare per tirare via gli animali morti nelle stalle da soli, con le mani, come le bestie”. Mi manca già Carlo Monni. E quanta furia c’era in quelle parole, quando se la prendeva coi ragazzotti provenienti da mezza Europa per l’alluvione di Firenze. La rabbia che si trasforma in qualche specie di bellezza. Che lui quella terra la conosceva sul serio. Che il Monni ci raccontava Dante e Cecco Angiolieri ai suoi maiali. E poi la gente. In giro a parlar con tutti, a camminar per le campagne, a respirare il vento. Su e giù per i palchi della provincia, i set dei registi più importanti, le Case del Popolo. Ci penso in questi giorni. Mentre lavoro. Mentre mi arriva l’agenzia che anche Don Gallo se n’è andato. Un altro che la conosceva bene la miseria. E quella direzione ostinata e contraria. Ora e Sempre. Poi improvvisamente mi vien da pensare invece a certi intellettualismi di bassa lega delle giovani promesse del teatro italiano. A chi non conosce Dino Campana e pensa di poterne fare a meno. A (presunti) artisti idolatrati, la loro superbia d’essere unici e originali. E a quegli altri con le loro narrazioni civili, ogni volta a cercar di far leva su quel che rimane della mia anima di sinistra. Che non (se) ne può più. Un giro in una cantina occupata e tutti anarco-insurrezionalisti. Valà, valà, che ci sono ancora bestie da spostare. Invece si crede che sia un vanto non farsi comprendere. Non domandarsi del pubblico. Fingere di volare alti, come quei palloncini a forma di coniglio che mi compravano da piccino. Ai giardinetti di Porta Venezia. Che si sgonfiavano e mi sembravano diventare tristi come un’illusione svelata. “Ma non capisci Marat che invece quello era il momento più bello? Finalmente si avvicinavano!”. Mi ama proprio. Ed è vero, non avevo capito niente. Meglio che vada anch’io a spostar le bestie.
Addio Carlone.