RENZO FRANCABANDERA | Che praticamente l’incognita dell’artista è sempre quella: serve studiare per fare arte? O l’artista in quanto titano fatto di polvere di stelle, ha in sè, nel suo istinto, l’assoluto creato e creatore?
Me lo domandavo alla macchinetta del caffè in ufficio e meno male che la mia Michela sempre mi conforta, puntellando argomentazioni velleitarie con conoscenza vera. Fra i due, chi legge e sa è lei. Seleziono nr 14 alla macchinetta, 0,40 cent per un caffè macchiato: per chi fa scienza, conoscere il pregresso è necessario, perchè nulla nel progresso scientifico può arrivare che non sia stato preceduto da uno step di conoscenza precedente cui il nuovo teorema, la nuova congettura, anche quando di rottura e rivoluzionaria, si colleghi.
E lei: questo lo dice anche Ray Kurzweil in Come creare una mente – i segreti del pensiero umano!
io: addirittura? Allora non è una cazzata…
Lei: Certo che no: secondo lui il progresso di scienza e tecnologia segue un ordine gerarchico e questo consente che ci sia chi sviluppa teorie anticipatorie che fanno da base per quelle successive. Fa l’esempio di Darwin che “affrontò il problema di definire una teoria generale delle specie tracciando un’analogia con la tesi di Lyell, per spiegare i cambiamenti graduali delle caratteristiche delle specie nell’arco di molte generazioni”. Lyell, cui Darwin riconosce il debito di pensiero, “aveva avanzato “l’ipotesi che fosse stato proprio il moto delle acque a incidere” valli enormi e dirupi come il Grand Canyon “nell’arco di lunghi intervalli di tempo, in sostanza asportando un granello di roccia alla volta”.
Einstein stesso ha elaborato le sue teorie che hanno ribaltato una immagine del mondo fisico che resisteva da due secoli influenzando profondamente il corso della storia basandosi “su una serie di scoperte sperimentali del diciannovesimo secolo” (Quelle del 1803 fatte dal matematico inglese Thomas Young grazie al quale si era stabilito che la luce è composta da onde”; “l’esperimento condotto nel 1887 con cui gli scienziati americani Albert Michelson e Edward Morley che avevano cercato di confermare l’esistenza dell’etere”).
io: beh allora dammi gli estremi della citazione che poi quando scrivo il pezzo faccio vedere che leggo un po’, dai…
Dall’altro canto penso allora che per chi fa arte la scuola potrebbe non servire, perchè l’arte attiva forme di pensiero diverse, non necessariamente gerarchizzate e legate a ciò che ci ha preceduto. Certo anche Leonardo è andato a bottega da Verrocchio, ma se aspettavamo Verrocchio per pensare all’elicottero… E così anche Caravaggio, o Shakespeare, e Boccioni, e Picasso. La libertà istintuale del gesto artistico ha in sè qualcosa di talmente animale che in fondo è come un diamante grezzo, che al più ha bisogno di una pulizia da parte di un severo (ma bravo) maestro, come Pai Mei in Kill Bill, che odi per due anni e poi capisci che aveva ragione, e se un giorno hai un’arma per svoltare nella vita lo devi a lui. Ma per fare arte la scuola forse è un corollario all’istinto. Basta solo capire dove sta la propria indole profonda.
io: e questa cosa qui l’ha detta qualcuno?
Lei: Si, sempre Kurzweil dice che “Il mondo dell’arte in effetti è più avanzato del mondo della scienza per quel che riguarda il riconoscimento della potenza del sistema percettivo umano”.
Il pensiero mi è venuto perchè da un mesetto mi giro per le mani il materiale riguardante un incontro fra le scuole di teatro presenti a Milano, favorito da Officine Creative, una delle realtà fondanti il progetto OCA presso le Officine Ansaldo. L’evento era stato a suo modo interessante. Certo breve. Ma un momento per rompere il ghiaccio, aprire all’esterno, e potrebbe sviluppare suggestioni su metodi didattici, rapporti con e fra i docenti e gli studenti. Certo loro sostengono che la scuola serva. Per molti dei partecipanti, gli anni passati nelle scuole di teatro sono spesso riconosciuti come anni positivi, di formazione necessaria. E anzi (questo lo dico io buttando il bicchiere di plastica nel bidoncino della differenziata e tornando a sedere), a volte fra gli attori italiani e quelli stranieri si avverte una differenza di preparazione e studi, quasi che quelli tedeschi, o spagnoli, o inglesi, sappiano mettere più abilità al servizio dell’arte, conoscendo canto, musica, ed essendo dotati di skills fisico-performative più strutturate, tutte cose ovviamente studiate. Insomma, è come se gli italiani se la tirassero un po’ troppo, sapendo fare meno.
Ciò non dipende solo dai cattivi maestri, quanto piuttosto dalle velleità di un popolo capace di trovate spesso geniali, ma anche di un’armata furberia con cui spera di restare sempre a galla. Mi viene in mente il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, la frase tutto intorno con gli italiani poeti, artisti e navigatori. Allora torno alla scrivania, e capisco che non c’è speranza. E che forse agli altri può anche non servire la scuola, ma per gli italiani è meglio di si. E anche con insegnanti adeguati. Di questi ultimi chiedere un curriculum, assistere a lezioni di prova, cercare chi fa faticare, insomma.
Il resto è legittimo sempre, ma è divertimento.
Il nostro video reportage
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