GIULIA MURONI | Un corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, in penombra. Un corpo silenzioso, che non produce narrazione.
L’ultimo lavoro della compagnia Città di Ebla, The dead, presentato al Teatro Gobetti nell’ambito della 18esima edizione del Festival del Colline Torinesi, prende liberamente le mosse da un’ opera letteraria, alla ricerca di un dispositivo originale di rappresentazione. Dopo la “Metamorfosi” di Kafka, la compagnia sceglie come riferimento il celebre racconto di Joyce, “The dead”, ultimo brano della raccolta “Gente di Dublino”, qui assunto come fonte ispirazione e molla di un meccanismo creativo che di proposito non vuole volgersi verso una riproposizione dell’opera nel suo registro testuale, ma si pone alla ricerca di un’autonomia nei linguaggi, nei contenuti e nell’estetica.
Sigarette, una caffettiera, un baule, calze. Dettagli quotidiani che popolano una stanza anonima. Fotografie scattate da un uomo di cui si intravedono solo le mani. Versa il caffè, lo porge alla donna, ma soprattutto la ritrae con insistenza, in modo impressionistico, quasi morboso. Uno sguardo maschile invadente, onnipresente, voyeuristico, che non si disperde mai nella donna, ma ribadisce sempre la propria posizione di soggetto. Lei, muta, spesso nuda, è resa oggetto di questa attenzione incessante. Sappiamo dal flyer che è una danzatrice (ma non la vediamo mai danzare) e che in lei si ricompone il ricordo di un amante perduto (ma non riusciamo a cogliere, nell’atmosfera rarefatta e frammentata, quel senso di nostalgia). Il suo corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, resta in penombra sulla scena, distante dallo sguardo del pubblico. Soprattutto il suo corpo resta silenzioso, non produce alcuna narrazione.
La scena, allestita come una qualunque stanza da letto, è tagliata sul proscenio da un velo di tulle. Su di esso vengono proiettate le fotografie, scattate sul palco da Luca Ortolani, che si intersecano con le poche azioni compiute dalla performer Valentina Bravetti: mettersi le calze, toglierle, guardarsi allo specchio, fumare. Lo sfalsamento dei piani produce un senso di vertigine: qual è la realtà? La perdita dello sguardo verso molteplici piani conduce alla messa in discussione del punto di vista assodato, della visuale protetta e rincuorante. Il tappeto sonoro, curato da Franco Nardi, alterna rumori provenienti dall’esterno con sequenze di suoni che, nella relazione con le immagini, fanno da contraltare emotivo e percettivo alla narrazione. Come nel racconto, il finale è segnato dalla caduta della neve, che, celando i contorni di tutte le cose, le rende indifferenziate e ne determina la fine.
E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.
Del celebre racconto viene ricercata l’aura epifanica dell’emersione del ricordo, ma lo spettacolo sembra scivolare nel formalismo e, intriso com’è di compositi effetti scenici, finisce col dare vita ad una narrazione effimera. La performer sulla scena compie un numero veramente esiguo di azioni, non particolarmente significative, l’atmosfera sembra sospesa, in attesa di qualcosa che non arriva.
La ricerca estetica di Angelini risulta interessante, ricca di immagini intense, tagli di luce non banali e sonorità incalzanti, pur non riuscendo a trasformarne l’intima struttura in una forma spettacolare, e rimanendo prossima ad una sorta di elaborazione installativa, di cui anche la dimensione scenica (come già era successo per il lavoro su Kafka) amplifica il nesso. Nel sempre difficile equilibrio dei contesti scenico performativi in cui la parola è assente, nella mancanza di quell’elemento umano, non-mediato, la narrazione del corpo, magari attraverso il movimento, può costruire una drammaturgia autonoma e convincente.
Ma la regia pare voler chirurgicamente sottrarre anche questo elemento di costruzione intellegibile di significato, e così se per un verso l’uso di strumenti e tecniche che allarghino la gamma di azioni e possibilità può essere una fonte di ricchezza, rimane tangibile il rischio per chi assiste di non raccogliere sufficienti elementi o di avvertirli come sfuggenti per la costruzione dei regimi di senso, fondanti l’opera d’arte stessa.
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