SABRINA VEDOVOTTO | Di tempo ne è passato a sufficienza per poter fare una analisi lucida e il più possibile oggettiva. Mai come quest’anno si è attesa tanto la preview della Biennale di Venezia. Già, perché è di questo che ci accingiamo a parlare. Una Biennale dalle aspettative incredibili, vuoi per il nome del curatore italiano, Massimiliano Gioni, vuoi per la sua giovane età, ma soprattutto per la mole di personaggi invitati, non tutti artisti. Ma di questo si è già detto. Il palazzo enciclopedico, questo il titolo della grande mostra, non tutti artisti, non tutti vivi, molti artigiani, molte persone al di fuori di ogni contesto artistico etc etc.
Non è necessario entrare nel particolare della grande mostra, già è stato fatto ampiamente, vorrei però sottolineare qualche particolare, qualche elemento di riflessione. La mostra di Gioni ha la caratteristica di poter essere letta con una duplice chiave, in maniera piuttosto superficiale, veloce e senza soffermarsi troppo, oppure invece cogliendo ogni piccolo particolare, ogni minimo segno di possibile riflessione. Come già scritto da molti, e da lui stesso affermato, è una mostra che racconta una intimità propria, un desiderio di conoscenza talmente vasto che appare impossibile a chiunque. Uno scibile tanto ricco, un numero così ampio di partecipanti, un numero di opere incredibile, e oltretutto opere enciclopediche appunto. Una mostra che richiama ad una introspezione, che fa l’occhiolino all’irrazionale, al supposto, a quello che si definisce l’onirico. Ma non solo. In questa enciclopedica visione del mondo, si osservano quelle che potremmo definire delle paranoie di questi cosiddetti artisti. Un lavoro estenuante, lungo, laborioso e a volte assurdo, ma perfettamente in tema con la mostra.
Nel voler leggere i lavori presenti con un atteggiamento approfondito, bisognerebbe avere la possibilità di vedere la mostra forse per dieci giorni, con interruzioni almeno di una settimana, per poter assorbire, digerire, e avere dei pensieri che abbiano un senso logico. Vederla in pochissimo tempo ti dà solo la possibilità di assaggiare, di percepire quello che potrebbe dire, gli insegnamenti che potrebbe dare o anche i paradossi che si potrebbero scoprire. È dunque, volendo essere davvero banali, tutto e niente, dipende appunto da come si vuole leggerla. I capolavori si intuiscono immediatamente però, anche solo vedendola in due ore; ed è così che il video di Camille Henrot, e la performance di Tino Sehgal (rispettivamente Leone d’argento e Leone d’oro alla Biennale) sono due lavori che i miei occhi hanno subito recepito come opere con la O maiuscola. Il mio debole per Sehgal forse mi ha impedito di essere obiettiva, ma il video della giovane artista francese, da me mai sentita prima, aveva un qualcosa di molto particolare, e non è un caso che la stanza dove veniva proiettato fosse stranamente piena (stranamente perché di solito, nei casi di grandi mostre i lavori video purtroppo vengono fruiti in maniera superficiale).
Una volta usciti dalle sale della grande mostra, tutto ciò che è stato appena detto perde di senso e significato, perché i padiglioni non sono solo intimi e riflessivi, ma sono soprattutto molto proiettati verso la realtà contingente. Chi con opere dirette, chi con discorsi edulcorati, molti artisti hanno infatti scelto di raccontare cosa sta succedendo. Hic et nunc.
Sbilanciandomi direi che il premio come miglior padiglione forse sarebbe dovuto essere assegnato alla Grecia, per un lavoro incisivo, intenso coraggioso forte, ma soprattutto contemporaneo. Tre video di rara bellezza, in cui le storie di altrettante persone si intrecciano, in modo sottile ma inequivocabile. Lo sfondo è una triste Atene, desolata abbandonata, deserta quasi.
C’è un immigrato che raccoglie ferrivecchi nei cassonetti, ma che poi all’interno di uno di questi trova un mazzo di fiori realizzato con origami di banconote, c’è un giovane che va in giro a filmare la città con il suo ipad fino a che non trova i ferrivecchi abbandonati dall’immigrato, e poi infine c’è una vecchia e sola collezionista, che nelle sue tediose giornate trascorre il tempo a fare forgiami con banconote vere, anche da cinquecento euro. Un paradigma della società contemporanea, che Stefanos Tsivopoulos sottolinea e ci sbatte in faccia.
Incisivo è anche il padiglione inglese, con il lavoro intenso di Jeremy Deller, considerato però dal The Guardian troppo mainstream, o ancora il padiglione russo, o quello spagnolo, con un immenso lavoro di Lara Almarcegui. Detriti di cemento, tegole e mattoni occupano la sala centrale, altre montagne di detriti più piccole fatte di segatura vetro nelle sale perimetrali, dove il pubblico può camminare intorno. Una camminata triste e desolante intorno, ma non sopra, ai detriti del mondo.