ALESSANDRO MASTANDREA | “Questo hamburger è offensivo a me e a tutti i cittidini americani. Fa schifo, è una merda”, e giù il piatto nella pattumiera. Se mai il lancio del piatto di porcellana divenisse specialità olimpica, Joe Bastianich avrebbe buone possibilità di vittoria. Figlio d’arte e migrante di ritorno, il Moriconi Nando della ristorazione internazionale, forma assieme a Carlo Cracco e Bruno Barbieri il trio più temuto d’Italia, secondo solo – per rimanere in ambito cinematografico- alle “tre madri” della famosa trilogia di Dario Argento. Pur avendo ben poco di atletico, Masterchef ha tutti i connotati di una vera e propria gara, disseminata di insidie e ostacoli dietro ogni angolo, una lotta contro il tempo e contro i climi torridi di una “cucina infernale”.
Non c’è spazio per perdenti e “dilusioni”, nella master class dei tre famosi giudici si gareggia per vincere, perché alla fine “ne rimarrà uno solo” ad accaparrarsi il “malloppo”.
E’ lo spirito dell’autoaffermazione e del primato a ogni costo che innerva i talent show, e MasterChef in particolare. Evoluzione e superamento dei vecchi format che hanno costellato l’esperienza televisiva dello scorso decennio, questi “reality 2.0” rifuggono come la peste “l’uomo senza qualità”, allora così ricercato, per qualcuno che invece si faccia portatore del saper fare. Tanto caro a questa fase politica di “larghe intese”, “il fare” assurge a vera e propria categoria dello spirito, mezzo imprescindibile per la vittoria finale e il primato, segno di appartenenza all’elite dei vincenti e predestinati. Da dove provenga questa richiesta incessante di cucina non è dato sapersi, eppure, a dispetto di ritmi di vita sempre più serrati che con la cucina mal si conciliano, l’arte culinaria è al centro di un’offerta mediatica tra le più intense, con il talent suddetto quale punta di diamante. Il cibo e la cucina –inteso come luogo fisico- in Mastechef assumono un doppia valenza: quello di ambiente familiare, caldo e inclusivo, e di cibo come elemento accomunante legato al piacere e alla sussistenza, ma anche luogo in cui la temperatura da tiepida e familiare vira al calor bianco. Dove, a suon di cucchiarelle in legno, si consumano le più accese rivalità, la lotta per il primato si gioca senza esclusione di colpi e le strategie si fanno spietate. Ambiziosi e determinati i concorrenti di Masterchef volano alto con le ricette, così come i tre giudici con le metafore: “il tuo foie gras è come macchina d’epoca, spande olio dappertutto”.
Ma il format ideato dal britannico Franc Roddam riflette anche un altro tipo di metafora, che difficilmente riusciremmo a cogliere senza guardare a Tiziana Stefanelli, vincitrice della seconda edizione. Avvocato di successo, moglie e madre di famiglia, da subito conquista il cuore di pietra dello chef Cracco, forse per le sue indubbie doti di angelo del focolare: “Io e Andrea siamo rivali, quindi lo squarterò”; “ A mia figlia dico sempre che l’importante è partecipare, ma noi tutti sappiamo che l’importante è vincere”. Ma si sa, i sani principi da soli non bastano a dar conto di una vittoria, e nel caso specifico potrebbe essere necessario scomodare nientemeno che Max Weber. Sbaglieremmo poi tanto se affermassimo che M-Chef riflette quella stessa etica protestante, di matrice calvinista, che nel famoso saggio del sociologo tedesco è individuata quale causa dello sviluppo capitalistico occidentale? In quest’ottica il successo non risulta più fine a se stesso, ma diviene anch’esso il segno della grazia divina operante su colui che alla vittoria è stato predestinato. E le parole della vincitrice si caricano quindi di nuove sfumature: “qualsiasi cosa si può fare nella vita, basta crederci tanto e avere determinazione”; “A vincere mi sento nel mio”. Per l’ignaro semifinalista Andrea, la sorte aveva già deciso. Le aspirazioni a un cambiamento, a una svolta nella propria esistenza, non potevano che infrangersi contro la coscienza della predestinazione, di un’appartenenza alla stessa elite dei tre chef -giudici che tutti ammirano.
Grazie alla forza omologante dei format, l’etica protestante di cui Weber parla, pare aver trovato il proprio luogo ideale in cucina, contagiando perfino noi italiani, popolo fiero delle proprie tradizioni gastronomiche e dalla cultura cattolica. In questo clima di contrapposizione tra riforma e controriforma culinaria, che molto occhieggia al passato, quella che qui definiamo l’etica cattolica non poteva non abbozzare una contromossa, affidandosi alla veterana dei fornelli raccontati, Antonella Clerici e al superchef Davide Scabin. Ne la loro Terra dei cuochi, all’aria spietata tipica dei talent, si sostituisce il più nostrano clima alla “volemose bene”. E la differenza si vede, soprattutto nella sorte riservata ai non meritevoli. Se nel format anglosassone sono sottoposti a una vera e propria espulsione dal “corpo” della trasmissione, attraverso un angusto corridoio che tanto assomiglia a un budello, ne La Terra dei cuochi, il perdente, pur nella sconfitta, è comunque riammesso in studio dalla puntata successiva, sorta di perdono ricevuto dai due sacerdoti officianti. Scabin diviene il difensore della tradizione gastronomica italiana, mentre il manto di giudici implacabili è vestito nientemeno che dai familiari dei concorrenti, chiamati a deciderne le sorti. A completare il quadretto familiare, vi sono gli assistenti-padrini. Dall’indubbio blasone televisivo, costoro si caricano della stessa valenza religiosa di coloro che accompagnano i novizi verso i sacramenti più importanti, oppure, più pragmaticamente, di introdurre i concorrenti nel difficile mondo del madia televisivo, consiglieri e raccomandatori al contempo.
D’altro canto nella cattolicissima Italia è così che funziona: senza raccomandazione non si va da nessuna parte. Neanche in cucina.